Associazioni, imprese sociali, servizi pubblici. L’emergenza Coronavirus coinvolge anche un esercito fatto da più di un milione di lavoratrici e lavoratori, volontarie e volontari, che combattono ogni giorno a fianco degli ultimi. Sono educatori e assistenti sociali, consulenti legali e psicologi, mediatori linguistici e culturali e operatori impiegati nei servizi più disparati. Tutti a tessere una trama fatta di passione e professionalità che non si è allentata neppure in questi giorni segnati dall’emergenza Covid-19 perché non può permettersi di farlo. Almeno non del tutto.
Le ultime settimane hanno già portato alla luce alcune differenze significative che ancora caratterizzano il mondo del lavoro. C’è chi continua a lavorare da casa attraverso lo smartworking, che sembra diventata la soluzione buona per tutto e chi invece ha dovuto chiudere totalmente la propria attività, chi è costretto a usufruire di ferie forzate e chi invece è si trova suo malgrado a rischiare il contagio nei luoghi della produzione.
Ma c’è anche un mondo che dovrebbe fermarsi e non lo fa: una miriade di lavoratrici e lavoratori del sociale costretti a vivere questi giorni nel guado.
Cosa succederebbe se si fermassero loro?
Se #iorestoacasa è il nostro viaggio per raccontare la sfida di chi non può permettersi di rimanere fermo. Di chi deve contenere il rischio contagio, per sé e per i propri familiari, ma al tempo stesso non può abbandonare il presidio, sospendere i servizi, interrompere i percorsi. Ed è anche grazie a loro se #andràtuttobene potrà effettivamente essere una realtà e non uno slogan del momento.
Per chi lavora nel sociale è così: senso di responsabilità misto a spirito di solidarietà, deontologia professionale ed etica, a servizio degli ultimi. Non è un caso che in pochi nella catena di comando si siano posti il problema di come far fronte alla gestione di case di cura, progetti di accoglienza, comunità educative, comunità terapeutiche, sportelli di supporto, strutture di bassa soglia e altri servizi essenziali.
In fondo è risaputo: chi lavora nel sociale c’è e basta, sempre e comunque, quando serve, che si tratti di personale dei servizi pubblici o operatori del Terzo settore.
Tra le tante operatrici e operatori che non possono permettersi di mettere in stand-by le attività, ci sono quelle/i impiegati nei centri anti-violenza e nelle attività a sostegno delle donne, come il Centro Veneto Progetti Donna.
Perché se #iorestoacasa rappresenta un orizzonte di salvezza per tutti, per molte donne, l’obbligo di stare a casa rischia di diventare un vero e proprio incubo in cui le mura domestiche si trasformano in una gabbia infernale.
“In questi giorni di emergenza il principale rischio è quello di un acuirsi delle violenze”. E’ la denuncia del Centro Donna. In situazioni di normalità, infatti, le violenza avvengono principalmente nei fine settimana, quando si rimane più spesso in casa e non ci sono le incombenze lavorative. In quei momenti la presenza in casa, di norma, diventa di molte ore consecutive e le donne sono esposte ad un maggior numero di situazioni a rischio. Inoltre, le donne, in una situazione come questa, così come avviene di norma nei weekend, sono sottoposte ad un controllo costante. Molte di loro hanno il peso della gestione della casa e la cura dei/delle figli/figlie. Il risultato è che non possono chiamare o contattare i centri perché possono essere viste e quindi “punite”.
Così l’emergenza rischia di diventare un inferno nell’inferno.
Il Centro Donna della Provincia di Padova offre ascolto, supporto psicologico, legale e servizi di accoglienza in strutture protette. Nel 2019 lo ha fatto per 1082 donne che si sono rivolte al centro per beneficiare delle attività di sostegno. La stragrande maggioranza lo ha fatto accompagnate dai figli. In 36 sono state accolte in strutture. Con loro 46 bambini/e. Ma il centro non si occupa solo di intervenire sulle situazioni di violenza e abuso. Oltre all’ascolto, al sostegno psicologico e a quello legale, le operatrici sono impegnate in attività di orientamento all’inserimento sociale e lavorativo, di empowerment e sviluppo di competenze, di sostengo alla genitorialità in raccordo con i servizi socio-sanitari, le Forze dell’Ordine, gli avvocati, i Tribunali e le altre istituzioni coinvolte.
I rischi per le operatrici sono alti perché nell’ultimo periodo si è registrato un forte numero di accessi. Le attività ordinarie, inoltre, richiedono interazione con diversi soggetti. Chiudere totalmente il servizio significherebbe, però, non solo consegnare molte donne all’abbandono e al pericolo, ma anche interrompere i percorsi di accompagnamento di tutte quelle che si sono reinventate e che non possono permettersi di tornare indietro.
In questi giorni le operatrici del centro sono state costrette ad fermare molte delle attività ordinare. Ma non per sospenderle. Per reinventarle. Lo sforzo comunicativo (#laviolenzanonsiferma), per dare un segno di speranza e possibilità, è imponente e si affianca ad una attività di sensibilizzazione incessante, per fare in modo che, nonostante l’emergenza, i servizi continuino a seguire le situazioni in carico. I contatti con le donne ospitate nelle strutture, invece, si sono dovuti diradare, ma non si sono totalmente interrotti. I
“Penso che quando sarà tutto tornato alla normalità sentiremo il contraccolpo di questa situazione e avremo un’impennata di richieste. In Cina è già successo” dicono dal Centro Donna. Le istituzioni e il Terzo settore intero devono prendere sempre più in considerazione questo fenomeno che, secondo i dati, coinvolge milioni di donne in Italia.