di Nicola Grigion

Pubblicato da Che-Fare.com il 2 maggio 2020

Eccola la seconda fase. I cinquecentomila posti di lavoro volatilizzati nel solo mese di marzo e le stime sul PIL per il primo semestre 2020 ne impongono un’introduzione piena di dubbi e perplessità. Contemporaneamente, come se non vi fosse alternativa, ne segnano il carattere squisitamente commerciale.

La cosiddetta fase due, che già prima di iniziare rimanda all’attesa della terza, si presenta così con un difetto strutturale: si propone di traghettarci fuori dalla crisi, ma lo fa chiedendoci di scommettere su un mercato avaro di vita e compromesso dalla distanza. Rimuove, cioè, la realtà di una produzione che si nutre di flussi e relazioni, di comportamenti e cooperazione, strettamente legata alla vita in comune. Proprio per questo, però, questa fase due si presenta come terreno insidioso ma aperto, pieno di contraddizioni e quindi assolutamente fertile per chi vuole sperimentare innovazione. Un vero e proprio campo di tensione.

In fondo, chi si misura con l’innovazione sociale ha fin da ieri un doppio problema: da un lato quello di reinventare le forme con cui prendersi cura della comunità, dall’altro quello di affermare contemporaneamente, non in un momento successivo, l’egemonia di una nuova geografia del valore sociale, in cui la cura del comune abbandoni finalmente la posizione di grimaldello collaterale, o al massimo obiettivo finale sempre posticipato, per essere riconosciuta come asset centrale e condiviso di un nuovo modo di produrre valore. In altri termini, di affermare la cura del bene comune come terreno di convergenza esteso e abitato da una pluralità di attori e non come dimensione perennemente ingabbiata tra felicità e profitto, utile solo a reiterare l’esistente.

“Affermare la cura del bene comune come luogo abitato da una pluralità di attori e non come spazio ingabbiato tra felicità e profitto”

I punti su cui misurarci non sono pochi. C’è da riscrivere un nuovo alfabeto del welfare nel tempo in cui viene sancita per decreto una gerarchia tra bisogni accettabili e bisogni sacrificabili. C’è da reinventare una nuova geografia della vicinanza, della libertà di movimento e della prossimità, ora che il bios è imbrigliato dalla sua stessa sopravvivenza. Ci sono luoghi da ridisegnare e mondi da riconnettere. Ci sono da riprogrammare le agenzie educative e quelle della cura, i servizi di assistenza e quelli di utilità collettiva. Ma c’è anche da metabolizzare l’effetto del cosiddetto “distanziamento sociale” sulla mobilità, sulla concentrazione urbana, sulla co-abitazione degli spazi e sulla fiducia reciproca.

C’è, in sostanza, da ritessere la geometria della vita collettiva e ricostruire i margini dello spazio su cui si muove l’innovazione sociale. Quel lavoro sulla soglia della rottura che permette alla riproduzione sociale, alla cura del bene comune, di non essere sempre riconducibile a una relazione di valore di segno esclusivamente economico.

Tutt’altro che semplice. Perché se è vero che la pandemia ha aperto spazi assolutamente favorevoli, non possiamo non guardare ai registri su cui è calibrata la risposta. Anche in questa fase due, lenta solo in apparenza.

 

L’inganno del tempo

La rappresentazione del tempo, in questo senso, non gioca certo un aspetto secondario. Il frame della ripresa cauta e distanziata segue quello di una narrazione che, fino a ieri, ha sovrapposto l’immagine della città vuota a quella della città ferma. Un vero e proprio inganno. All’austerità di relazioni che abbiamo vissuto non è infatti corrisposta un’assenza di movimenti, di trame, di smottamenti. L’illusione, tuttavia, è durata ben poco. E’ evidente a tutti che in corso c’è una vera e propria metamorfosi urbana, sociale ed economica che non attende il tempo della ripartenza e non si sincronizza sulle sue fasi. Per comprenderne fino in fondo la radicalità e condizionarne eventualmente la direzione, non è consigliabile quindi rivolgere lo sguardo al futuro dimenticandoci del presente.

Da questo punto di vista l’innovazione sociale, intesa come processo ma anche come platea di attori che la rivendicano, cammina su un terreno piuttosto scivoloso. Il Terzo settore, l’associazionismo, l’impresa responsabile, i centri di ricerca, così come le agenzie e le istituzioni pubbliche, non sembrano esposte solo al pericolo di rimanere impantanate nella logica del tempo sospeso, cara a chi rinvia sempre a tempi migliori per poi riaffermare gli assetti precedenti, ma rischiano anche di farsi tentare da improbabili fughe in avanti, buone in fondo per essere comodamente riassorbite nel mantra retorico del cambiamento. La fagocitazione di questa domanda autentica di cambiamento è già in corso. E cadere nel tranello del “nuovismo” ideologico finirebbe per anestetizzare ogni ipotesi trasformativa. Perché celebrare il nuovo, talvolta, è il modo migliore per non misurarci mai con la realtà di un’innovazione capace di forzare i perimetri dell’esistente. A chi invece volesse volgere lo sguardo al presente non mancano i punti su cui far leva.

“Il mutualismo interpretato nel tempo del Covi19 ha allestito un nuovo piano condiviso della responsabilità sociale territoriale”

Il primo, ampiamente dibattuto, riguarda la vera e propria irruzione sulla scena pubblica di un neo-mutualismo che ha animato fin da subito il tempo della crisi. Ne avevamo francamente bisogno dopo un lungo periodo di rancori ed egoismi a dominare il discorso pubblico sulla composizione sociale. Sulla straordinarietà della sua ampiezza si è già detto molto. Da Roma a New York ha mobilitato milioni di persone coinvolte in attività di sostengo alla comunità, ma ha anche prodotto la più grande esperienza di solidarietà della storia, con oltre 650 milioni di euro raccolti, secondo quanto ha rilevato l’osservatorio di Italia No Profit.

A questa dimensione squisitamente quantitativa vanno tuttavia aggiunti alcuni elementi più marcatamente qualitativi. Perché il mutualismo interpretato nel tempo del Covi19 ha allestito un nuovo piano condiviso della responsabilità sociale territoriale, proponendo un nuovo livello di interazione, palese e dichiarato, che coinvolge una pluralità di soggetti – dalle istituzioni pubbliche ai singoli cittadini, dal terzo settore alle attività commerciali, oltre ad aziende e fondazioni – aprendo così a possibili trasformazioni.

 

Un volontariato liquido e maturo

Sul terreno del volontariato, ad esempio, ha proposto delle indicazioni tutt’altro che trascurabili. Ha messo in discussione definitivamente le sue traiettorie canoniche e la rigidità delle identità associative, ingaggiando una composizione di persone variegata, dalla provenienza diversa, capace di rivitalizzare un modo di prender parte alla collettività che forse aveva bisogno di essere liberato da troppe sovrastrutture e condizionamenti.

Di contro, ha affermato la presenza di una nuova realtà del volontariato che non si definisce tale, liquida, difficilmente inquadrabile in schemi conosciuti, meno propensa alla fidelizzazione, più incline al nomadismo associativo o, ancora più probabilmente, a sposare una dimensione di obiettivo più che di scopo.

Una platea che, tuttavia, si dimostra matura e rivendica l’ambizione di partecipare a processi collettivi di trasformazione della società più ampi, coinvolgenti, autentici. Il problema, d’altro canto, non è capire se e come chi si è impegnato in questa fase avrà la stessa disponibilità anche in avanti, cosa peraltro non semplice. E neppure eleggere i volontari e il volontariato a soggetto protagonista di questo processo di trasformazione.

Il punto è piuttosto legato al se e come siamo in grado fin da subito di nutrire e farci nutrire da questa spinta, per comprendere le indicazioni che offre, queste si, alla complessità dello stare insieme. La precipitazione delle vulnerabilità sanitarie, economiche e infrastrutturali di queste settimane, ha fatto il palio infatti con l’emersione di nuove convergenze intorno alla cura della comunità che, in una società che mette in fila una crisi dopo l’altra, non può essere relegata ad elemento secondario.

“Non si tratta di catturare la disponibilità di nuovi volontari, ma di farsi trasformare dalla ricchezza che questa vitalità ci ha consegnato”

Per capirci, non si tratta di catturare la disponibilità di nuovi volontari, di ringraziarne la bontà d’animo o, ancor peggio, di teorizzare la gratuità del lavoro di cura, ma di farsi trasformare dalla ricchezza che questa vitalità ci ha consegnato, assumendosi il rischio vero, concreto, del terreno della cura come nuova dimensione ricompositiva e dell’innovazione aperta come chiave strategica. Una prospettiva, questa, non circoscritta al mondo del Terzo Settore e all’associazionismo, ma estesa alla possibilità di reinventare interamente il welfare e la sua governance.

 

Una nuova porosità istituzionale

A questo proposito non può sfuggire come l’esperienza di questo tempo abbia anche rivelato, a tratti, le potenzialità di una nuova porosità istituzionale. In molte città la crisi ha aperto orizzonti possibili e variegate possibilità di intrecci. Non solo nella città di Milano dove Milano Aiuta o la scommessa di elaborare insieme ai cittadini la strategia di adattamento rappresentano certo una sperimentazione importante. Ma c’è una costellazione variegata di nuove alleanze locali che, in questa fase, sta riproponendo l’urgenza di trovare modelli di governance che sanciscano definitivamente la fine della dicotomia pubblico-privato. Un percorso, questo, altrimenti incompiuto.

Da un lato, infatti, rimane il problema di costruire una governance di processi, anche privati, capace di far propria una nuova dimensione di responsabilità pubblica, evitando che l’iniziativa privata, anche quando sociale, sia ripiegata sul’’interesse particolare e riproponga se stessa e la sua esistenza ,senza mai porsi il problema di farsi istituto del comune e andare oltre i confini della propria organizzazione.

Dall’altro, tuttavia, non sembra più rinviabile l’individuazione di forme di interazione tra pubblico e privato in grado di liberare le spinte innovative, senza imbrigliarle in schemi inutilmente rigidi, spesso frutto di esigenze organizzative e non solo dettati da esigenze normative.

Non solo gli appalti centrati sul ribasso da sostituire con co-progettazione di servizi, piattaforme e gare fondate sull’impatto, ma le stesse possibilità offerte dagli strumenti della co-programmazione e della co-progettazione hanno bisogno di essere riletti: da opzioni tecniche attivate su singole linee di intervento, a modalità di approccio strutturale nell’interpretazione del governo locale. Su questo terreno la crisi ha messo a nudo un bisogno impellente e alcune possibilità inedite. Ora si tratta di far diventare questo momento occasione per osare, senza attendere un dopo che tarda a venire.

Vi sono tuttavia alcune questioni che non sembrano trovare piena legittimità nel dibattito di questi giorni e che mi sembra quindi utile restituire all’ordine del discorso.

 

La rottura

La prima, riguarda il rapporto tutt’altro che indifferente tra innovazione sociale e regolazione della vita. Si tratta, forse, di uno dei terreni più problematici del presente. Tuttavia, o forse proprio per questo, sembra sempre affrontato in maniera disgiunta, come se fosse una questione separata, al più interessante in chiave valoriale o di etica del diritto. Ma per riscrivere il presente, per produrre cioè innovazione, è possibile abitare il tempo delle relazioni contingentate e disciplinate senza porsi il problema della rottura?

La domanda ha fino in fondo a che vedere con la natura dell’innovazione stessa e dei suoi processi. In primo luogo perché l’innovazione sociale, in quanto dinamica aperta, si nutre proprio della tessitura di relazioni, di un’intelligenza collettiva che ha bisogno di essere innescata, condivisa, non imbrigliata. In secondo luogo perché proprio l’innovazione sociale si muove permanentemente sul perimetro della rottura, sull’equilibrio di un rapporto di forza che coinvolge l’orizzonte definito e il suo possibile oltre.

Per scrivere una nuova toponomastica dell’esistente, una nuova economia della cura che vada oltre le maglie del profitto e delle sue regole di accesso alla ricchezza, non basta quindi sostituire allo stanco erogatore di welfare pubblico, una platea scalpitante di soggetti del Terzo settore.

Peraltro questi hanno in larga parte bisogno di uscire dall’ipocrisia auto-celebrativa che li vuole depositari di un valore intrinseco, indiscutibile, inattaccabile (basta pensare, da questo punto di vista, al piano della valorizzazione e della tutela dei lavoratori) e in fondo sembrano rivendicare il ruolo di stampella, tra i fallimenti dello stato e del mercato, che gli viene assegnato.

“Il nuovo welfare per definirsi innovativo non può che essere universale”

C’è invece da lavorare per articolare in forma aperta la semantica di un nuovo welfare che, per definirsi innovativo, non può che essere universale. In altre parole, è la possibilità di produrre un suo allargamento che qualifica un nuovo welfare possibile, non la natura di chi lo eroga. E questo è fino in fondo un terreno di rottura.

Perché con un sano realismo – questo si dovuto – è bene riconoscere che le potenzialità aperte nel tempo di questa pandemia non si stanno traducendo, per il momento, in risposte all’altezza. L’uscita dalla crisi, così come ci è stata proposta finora, parla tutt’altro che il linguaggio dell’universale e della trasformazione, al di là dei richiami all’unità nazionale e alla ricostruzione.

L’accesso stratificato alle misure di sostegno individuale, il carattere marcatamente segmentato delle iniziative per la ripresa economica, le gerarchie di genere e del lavoro riproposte come immutabili, l’introduzione, culturale prima ancora che giuridica, della deroga ai principi costituzionali come possibilità di risposta alla crisi, alludono invece a una reiterazione di processi di inclusione differenziale e condizionata alla ricchezza collettiva. E fare i conti con questa realtà non è per nulla un processo morbido .

Si tratta, in ogni caso, di un campo aperto. Ed è bene essere consapevoli che non agiamo in uno spazio neutrale. Le aree urbane, come quelle interne, sono a loro modo attraversate da una straordinaria ambivalenza che non è possibile ricondurre ad unità, né è possibile illudersi di appiattire.

Sono dimensioni in cui convivono l’eccezionale vissuto di biodiversità culturale, di solidarietà e di reciprocità di cui stiamo assaporando le potenzialità, ma anche di spazi dove sono incardinate le gerarchie della ricchezza e della cittadinanza, dove si annidano egoismi e rancori sociali, linee del potere e della marginalità. Non sarà quindi un’ecumenica attesa a salvarci. Semmai, abbiamo davanti un tortuoso processo di ricomposizione su cui lavorare. Perché non vi è innovazione sociale possibile senza il coraggio di agire su queste linee di frattura, di prender parte.

C’è quindi un urgente bisogno di uscire dal guscio delle certezze per fare i conti con la realtà, di abbandonare atteggiamenti auto-conservativi e scrollarsi di dosso quelli rivendicativi, ma anche ogni velleità tattica, machiavellica, per liberarsi definitivamente da quel riflesso incondizionato che porta sempre all’attesa di un’ora X in cui tutto sarà possibile.

Per farlo, abbiamo bisogno di mani sporche di errori, capaci di assumersi la responsabilità di un’innovazione sociale imperfetta ma praticata, non solo evocata. In altre parole, aperta.

“Costruire il presente e il futuro in un tempo unico. Solo in questo modo pratica e pensiero potranno trovare una sincronia utile”

Perché abitare l’incertezza non può essere una tattica buona solo per superare il guado, per riorganizzarsi e resistere, ma va assunta come terreno strategico e, paradossalmente, driver progettuale su cui costruire il presente e il futuro in un tempo unico: il qui ed ora. Solo in questo modo pratica e pensiero potranno trovare una sincronia utile.

Certo, il contesto è tutt’altro che prosperoso e rassicurante. D’altro canto servirebbero interventi strutturali, normativi e culturali fuori dal registro ordinario di un discorso che, ammantanto di cambiamento, ripropone le ricette di sempre. Ma questa non può più essere la scusa per rimanere immobili o occupare un ruolo ai margini. Assumere questa sfida come progettuale non può significare accontentarsi di un mero ruolo rivendicativo.

Perché il processo dell’innovazione sociale non può essere semplicemente incentivato, promosso, liberato. Va vissuto. E’ un divenire continuo da conquistare. Un motto felice, di parte, da giocare fino in fondo, a costo di mostrare tutti gli errori accumulati finora.


di Nicola Grigion

Quando parliamo di professioni sociali, soprattutto durante l’emergenza Covid19, compiamo sempre un’operazione scivolosa.

Noi stessi, nel raccontare le storie dei lavoratori del sociale che non possono fermarsi, abbiamo ricordato il senso di solidarietà e di responsabilità che animano questo lavoro. Talvolta, quindi, seppur mossi dalle migliori intenzioni, rischiamo di dare eccessiva enfasi ai tratti umani e passionali che lo caratterizzano, finendo ingiustamente per mettere in secondo piano le importanti professionalità che questo impiego richiede: trasversali e specifiche, tecniche e relazionali al tempo stesso. Si tratta di un carattere individuale dei professionisti del sociale, questo, che invece andrebbe messo sempre al primo posto.

Ma c’è un altro aspetto che rischia di essere taciuto ancor più spesso e che dovrebbe invece essere al centro di ogni ragionamento sul lavoro sociale, tanto più in questo momento di crisi: la sua dimensione collettiva. Parliamo, quindi, dell’equipe.

Nei nostri consigli utili per affrontare l’emergenza, abbiamo  tentato di offrire alcune indicazioni di metodo per far fronte agli smottamenti provocati da questo momento epocale.  Per esempio, abbiamo visto come, in questa situazione di sbandamento, procedere per punti invece di tentare approcci complessivi rispetto alla crisi in corso, potrebbe aiutarci a non perderci. Abbiamo anche visto come riscrivere gli obiettivi e le priorità del nostro lavoro possa essere la chiave per adattarci meglio a questa situazione, laddove tutte le nostre certezze sono state messe sottosopra. E, infine, abbiamo valutato che, più che sulle competenze professionali, questo potrebbe essere il momento di far leva su esperienza e risorse personali di ognuno di noi, che inevitabilmente entrano in gioco.

Fino a qui tutto bene. O quasi. Si perché, un conto è mettere in fila una serie di consigli, altra cosa, direte voi, è metterli in pratica, verificarne la fattibilità, assumersi la responsabilità e il peso delle scelte, facendo i conti la realtà di un servizio a domicilio, uno sportello, una struttura di accoglienza o un’unità di strada, tutti messi sottosopra dallo scenario pandemico.

In effetti non c’è nulla di semplice in tutto questo. Una cosa però è certa: da soli non possiamo farcela. L’unico modo è ripartire dalla nostra equipe.

Affrontando l’argomento “gruppo di lavoro” non è semplice evitare di cadere in retoriche che esaltano orizzontalità e condivisione, senza tuttavia riuscire a riempirli di senso. E’ bene invece riconoscere che, proprio il lavoro in equipe, è un territorio quasi sempre problematico, carico di equivoci, di contraddizioni, di relazioni riottose, spesso disegnato sulla carta ma più difficilmente tradotto nella realtà.

Lo scenario, inedito per tutti, rende inoltre più fragile ogni certezza e fatichiamo a trovare modelli di comportamento utili da seguire. Possiamo però provare ad orientarci attingendo ad uno dei patrimoni più preziosi che possediamo: la memoria dei nostri errori.
Quelli che abbiamo commesso in passato e da cui è il momento di dimostrare di aver imparato.

 

Uno spazio di sfogo

Sarà capitato anche a voi (dovrebbe!) di ritrovarvi con la vostra equipe subito dopo le prime disposizioni sull’isolamento e la sospensione delle attività, ormai più di un mese fa. Probabilmente la modalità telematica e le urgenze avranno imposto di entrare subito in una fase operativa, per agire in fretta e non perdere troppo tempo. Non è certo sbagliato. Anzi. Ma, al netto delle incombenze e dell’economia dei tempi, nelle nostre riunioni d’equipe, quelle che confidiamo abbiate fatto almeno settimanalmente anche in questo momento di crisi, potrebbe essere utile dedicare uno spazio, anche contenuto, alla condivisione delle preoccupazioni. Infatti, non possiamo sottovalutare la pressione che ogni membro del nostro gruppo sta vivendo, pretendendo la stessa lucidità di sempre. Il cambio repentino della nostra quotidianità e i timori per la situazione, non solo rispetto al contagio, ma anche quelli economici e sociali, hanno effetti diversi sui componenti del nostro team e uno spazio in cui verbalizzare le preoccupazioni, confrontarsi, sentirsi accolti e riconosciuti, potrebbe essere di enorme aiuto. Tra le righe delle parole di un collega potremmo inoltre leggere una richiesta di aiuto o potremmo noi stessi averne bisogno. Ma potremmo anche scoprire nuovi leader, nuovi trascinatori, anche solo temporanei; colleghi capaci di farsi carico maggiormente della situazione, forti di risorse personali fino a prima celate. Saranno di enorme aiuto.

Anche a distanza di un mese dall’esplosione del contagio, potrebbe essere utile riproporre sempre questo momento, lasciando anche libero sfogo ai pensieri, perché la situazione è in continua evoluzione e con essa, anche lo stato d’animo dei componendi della nostra equipe. Questa possibilità permetterà, non solo di ritrovare la stessa lunghezza d’onda con i colleghi, ma anche di rafforzare i legami del gruppo, condividendo insieme le emozioni di questo momento critico. Il ruolo del coordinatore in questo caso sarà di estrema importanza per gestire al meglio questo spazio e per capirne i limiti e poterlo chiudere prima che diventi esageratamente carico e quindi dannoso per qualcuno dei nostri colleghi. L’ordine del giorno, poi, incombe.

 

Manteniamo, anzi rafforziamo la supervisione

Quando un evento impatta in maniera così importante sulla nostra quotidianità e tutti i nostri sforzi sono concentrati sulle azioni da mettere in campo per fronteggiare la situazione (pensiamo ai tanti interventi straordinari che abbiamo dovuto affrontare per mettere in sicurezza gli utenti, o per riorganizzare i luoghi di lavoro), la tentazione è quella di lasciare per strada alcune buone abitudini, o almeno di trovarsi in difficoltà nel riprogrammarle. Sarà capitato anche a voi, in passato, di aver derogato all’agenda per far fronte a una situazione difficile. Rinviare può essere una buona soluzione temporanea ma non ci salverà nel mare turbolento che stiamo attraversando. Lo spazio di sfogo e condivisione che ci siamo presi, per quanto prezioso e utile, non può infatti bastare e non va confuso con uno dei principali strumenti che garantisce il benessere della nostra equipe: la supervisione psicologica esterna. Tutti i gruppi di lavoro dovrebbero poterne godere sempre e, se non l’avete ancora attivata, questo è il momento buono per farlo. Certo, entrare in sintonia con il supervisore non è facile e talvolta servono diversi tentativi. Lo spazio della supervisione, però, può diventare un momento determinante nella vita e nel consolidamento del nostro team, sia perché il lavoro sociale porta con sé un carico emozionale e relazionale altamente rilevante, sia perché le relazioni tra i componenti del nostro gruppo sono continuamente sottoposte a stress e hanno bisogno di una buona manutenzione, al di là delle attività ordinarie di coordinamento. Potremmo mantenere il nostro appuntamento mensile con il supervisore o ritenere più opportuno, in questa fase particolare, attivare la supervisione in maniera più frequente, magari sperimentando in alcuni casi anche quella individuale. Non sarà tempo sprecato.
Inutile dirlo, ma facciamolo: perché lo spazio della supervisione sia comodo per tutti e diventi effettivamente un momento di cura, il supervisore dovrà necessariamente essere esterno al gruppo di lavoro e non essere implicato nella presa in carico dei beneficiari del servizio che svolgete. La supervisione, anche e soprattutto quando entra nel merito degli approcci con cui gli operatori affrontano le situazioni individuali dei beneficiari, non va confusa con un momento di consulenza o di confronto sul caso specifico, anche se talvolta possiamo avere difficoltà a individuare i confini. Il professionista incaricato ci saprà di certo guidare.

 

Attenzione a ruoli e mansioni

Risintonizzati sulle frequenze condivise dell’emergenza, i membri dell’equipe dovranno cercare di rimettere in moto il loro lavoro. Non tutte le attività, i servizi e gli interventi potranno essere svolti, almeno non come prima. Nei nostri consigli utili avevamo già indicato l’opportunità di riscrivere le nostre priorità, ridisegnando i nostri obiettivi che, se non del tutto ribaltati, sono quantomeno gravemente condizionati dall’emergenza. Intorno a queste priorità e a questi nuovi obiettivi sarà importante anche ridefinire una nuova suddivisione di ruoli e mansioni all’interno del gruppo di lavoro, o verificare se quella attuale è adeguata. Certo, non si tratta di snaturare le competenze e le professionalità spiazzando il team e i suoi membri. Ma in questo contesto, dove si lavora necessariamente più distanti e più soli, sarà importante verificare le convergenze e avere maggiore attenzione ai meccanismi di condivisione e cooperazione. Senza retorica, nei fatti.

Da questo punto di vista, non c’è dubbio, saranno più avvantaggiate le equipe che, non solo hanno già un distinto carattere multidisciplinare, ma hanno assunto l’interdisciplinarietà come modo di affrontare e organizzare il loro lavoro. Si tratta di gruppi di lavoro in cui ogni componente, non solo ricopre un ruolo e svolge una mansione diversa dagli altri, ma lavora in maniera complementare a quella dei colleghi. In sostanza, parliamo di quei gruppi dove, non solo c’è una presenza di diverse professionalità che ricoprono ruoli diversi (psicologo, educatore, operatore socio sanitario, operatore legale, assistente sociale, giusto per fare alcuni esempi), ma sono previsti anche spazi e tempi comuni di lavoro ed intervento, fisici e digitali (tra questi la riunione dell’equipe multidisciplinare, il progetto individualizzato condiviso, il diario di bordo, etc.). In queste equipe ogni membro, a partite dal proprio ruolo e dalla propria specifica competenza, contribuisce alla definizione di percorsi, interventi, soluzioni, e ogni intervento è concatenato a quello dei colleghi. In questi gruppi lo sforzo  (e a volte lo scontro) sono maggiori, ma diventano anche il modo in cui prendono forma decisioni importanti e condivise, diversamente dai gruppi in cui ogni membro svolge le stesse mansioni degli altri e si limita ad un confronto o in cui ognuno, seppur con ruoli diversi, opera separatamente, producendo un effetto silos.

Durante la crisi, con obiettivi e priorità nuove che implicano spesso un maggior impiego di risorse personali piuttosto che professionali, sarà quindi utile verificare le geometrie del nostro organigramma utilizzandolo come strumento strategico e non semplicemente come fotografia della nostra organizzazione. Sperimentare nuovi modi di funzionamento per favorire l’interazione tra i membri dell’equipe ed evitare, in questa fase più che mai, che le distanze diventino ancor più marcati, sarà un ottimo esercizio anche per il futuro.

 

Darsi tempi certi per abitare l’incertezza

Uno dei motivi più importanti dello spiazzamento che un po’ tutti abbiamo avvertito già dai primi giorni dopo la deflagrazione della crisi, è il fatto che le nostre giornate sono state messe letteralmente sottosopra. Dover fare senza poter fare è un abito scomodo da vestire. Lo spaesamento è tanto più importante quando fatichiamo a ritrovare tempi certi e nuove norme di funzionamento.

Quella del lavoro nell’emergenza, d’altronde, è solitamente una storia di notti insonni e levatacce, di giornate mai concluse e di una serie di pasti consumati senza fermarsi. Per questo, riorganizzare i tempi dell’intera equipe (oltre ai nostri) ci permetterà di non ripetere un errore che probabilmente abbiamo commesso altre volte in situazioni di emergenza, quando abbiamo fatto saltare scadenze condivise e individuali. Capita. Sarà però fondamentale dare al più presto nuove certezze al gruppo e riorganizzare i tempi intorno ad alcuni punti di convergenza.  Senza rigidità, ma fissando alcune ancore, alcuni momenti, alcune scadenze, che rappresentino per tutti dei punti di riferimento.

A tenere unito il lavoro della nostra equipe potrebbe aiutarci ulteriormente anche la tecnologia. Non solo la miriade di piattaforme che permettono conversazioni, riunioni o addirittura assemblee a distanza, come Zoom, GoToMeeting, Google Meet, Mic-Teams, Whereby, Webex, Skype, Hangouts, Jitsi, che tutti abbiamo già sperimentato abbondantemente fin dalle prime ore, ma anche altri strumenti che permettono di condividere l’avanzamento del lavoro o di lavorare in condivisione. Oltre alla galassia di estensioni messe a disposizione da Google, vale la pena ricordare gli strumenti offerti da piattaforme come Trello e Slack, che possono diventare dei veri e propri uffici virtuali, dove condividere progetti, assegnare priorità e seguire l’avanzamento dei lavori dei colleghi secondo una metodologia “agile”, incentrata su cicli di lavoro.
Anche questa sarà una buona palestra per chi ancora non si era attrezzato adeguatamente.

Attenzione però. Né gli strumenti, né la riorganizzazione del lavoro possono farci dimenticare che quelli di prima, scanditi negli spazi dell’ufficio o delle strutture, sono tempi che non possono essere trasferiti tali e quali nelle nostre case. Il tempo del lavoro da casa, o quello dei luoghi di lavoro che la pandemia ha modificato nel loro modo di essere vissuti, sono molto diversi da quelli di sempre. Si tratta di un tempo di lavoro dilatato, in particolare durante un’emergenza che moltiplica i problemi e complica le soluzioni. In casa, così come nelle strutture, anche riorganizzare gli spazi è un lavoro, così come è un lavoro quello di far combaciare i tempi con quelli dei colleghi, o magari dei figli che a loro volta devono seguire lezioni online, solo per citare alcuni tra i problemi più comuni.

E questa considerazione ne porta immediatamente con sé un’altra. Non siamo tutti uguali e pertanto non tutti potranno rispondere alla nuova organizzazione adeguandosi con la stessa facilità degli altri. Adottare un modello non solo agile, ma anche flessibile, calibrato su ognuno dei nostri collaboratori (in questo caso sarà il coordinatore dell’equipe ad avere un ruolo centrale) sarà vitale per garantire che in questa situazione, già di per sé complessa, il gruppo abbia la possibilità di esprimersi al meglio, valorizzando e non rimarcando le differenze.

A questo proposito va tenuto presente anche il livello di sforzo che possiamo chiedere ai nostri collaboratori. Non solo legati alle caratteristiche personali, ma anche a quelle contrattuali. Gli equilibri di sempre sono saltati.

 

I tempi per i singoli

Un ultimo pensiero non può che andare alla nostra macchina del caffè. Quella dove abbiamo consumato tante pause tra una riunione e l’altra, dove abbiamo incrociato quel collega che, da solo, si è sentito più libero di sfogare i suoi pensieri o di fare quel ragionamento che in riunione non ha avuto il tempo e la prontezza di articolare. Questa emergenza più di quelle che abbiamo vissuto in passato, ha quasi azzerato i tempi di ascolto informale, quelli dedicati a ogni singolo membro del nostro gruppo, che rischiamo ora di incontrare solamente tra i box di una piattaforma o nel mezzo di un intervento in cui è impossibile prendersi lo spazio e il tempo per un confronto.

Ma abbiamo fortemente bisogno di rinsaldare i nostri legami. Non tralasciamo quindi il rapporto con i singoli membri del gruppo. Una chiamata, un momento dedicato ad ognuno di loro, compatibilmente con i tempi che scandiscono queste giornate, potrebbe rivelarsi essenziale per capire ciò che non traspare, per avere impressioni e suggestioni, o semplicemente per ritrovare quella sintonia che, sappiamo tutti, più che attorno al tavolo delle riunioni, si salda spesso davanti alla macchina del caffè.

Lo sappiamo bene. Non sarà semplice mettere in pratica tutte le cose che ci siamo detti e proposti di fare. Non è un dramma. Non sarà un problema. Non è il momento di fare bilanci o di correggere con la penna rossa i nostri errori. Questo è il momento di vivere l’incertezza, cercando di abitare il caos in maniera costruttiva. Per questo, anche per la nostra equipe, questo può essere un momento di eccezionale innovazione: delle relazioni, degli strumenti, delle geometrie e, perché no, degli orizzonti.

L’importante è ripartire dal nostro gruppo di lavoro, prendersene cura, rimettendolo al centro del nostro funzionamento come architrave della nostra organizzazione, anche quando i tempi dell’emergenza sembrano consigliarci di tenere la testa bassa e correre, per poi rialzarla una volta che tutto questo sarà finito.

Rimanere immobili aspettando un tempo migliore non ci aiuterà.

Il dopo è già ora. Per questo dobbiamo aiutarci a sperimentarlo insieme.

Al di là della retorica, noi e la nostra equipe potremmo uscirne feriti, ma di certo più forti e rinnovati.


di Nicola Grigion

Reinventare il quotidiano. Questa è forse la sfida più difficile che ci ha consegnato l’emergenza Coronavirus. E non per un vezzo creativo, sia chiaro. Ma perché in queste giornate, per essere protetta, ogni attività deve fare i conti con una nuova dimensione del tempo, dello spazio e delle relazioni, perfino l’ozio.

Se vi occupate di lavoro sociale lo sapete bene perché questa sfida è doppia. La vivete per voi e per gli utenti dei vostri servizi.

Per questo, superato lo spiazzamento iniziale, anche se la situazione rimane del tutto fluida e incerta, abbiamo pensato che potesse essere utile mettere nero su bianco alcuni consigli per aiutare chi lavora nel sociale ad affrontare l’emergenza.

Ovviamente, chiariamolo fin da subito, non c’è una soluzione buona per ogni situazione. Quindi, non scriveremo un vademecum da applicare in tutti i contesti. Un centro diurno per disabili non funziona come un servizio anti-tratta, un servizio di riduzione del danno è diverso da un centro di accoglienza per rifugiati, una comunità minori non ha le stesse dinamiche di un centro anti-violenza e uno psicologo di comunità non ha le stesse mansioni di un consulente legale. Però, possiamo provare a condividere alcune indicazioni di metodo che ognuno di voi potrà confrontare con le sue, o potrà far proprie per prendere le decisioni giuste.

1. Procediamo per punti

Una sensazione che ci ha accomunati in questi giorni è stata di certo lo spiazzamento. Siamo spiazzati anche perché facciamo fatica a capire come possiamo aiutare le persone che contano su di noi. Non sappiamo come essere utili. In questo momento le nostre conoscenze professionali non ci sono sempre d’aiuto. La situazione è lontana dalla normalità del nostro servizio. E’ uno scenario inedito e scivoloso. Siamo stati sicuramente tentati di mettere uno dopo l’altro gli elementi per disegnare il quadro della situazione e formulare le nostre strategie. Ma facciamo attenzione. Perché, anche se sembra un’operazione razionale, insistere su uno sguardo d’insieme potrebbe finire per farci sentire impotenti o, in un contesto così sconosciuto, farci prendere direzioni sbagliate.

Potrebbe essere più utile, invece, destrutturare lo scenario, passando da un’analisi di linea a un’analisi di punto. Affrontare un problema alla volta ci aiuta a non perderci e a mantenere un parziale controllo della situazione, dandoci la possibilità di superare un ostacolo dopo l’altro. Non vale sempre, ma in questo contesto indecifrabile può essere una strategia che ci permette di mettere a fuoco i punti critici del nostro lavoro.

“Affrontare un problema

alla volta ci aiuta

a non perderci”

Facciamo un esempio. Se leggendo questo articolo urtassimo contro una bottiglia d’acqua, finendo per rovesciarla sulla scrivania (per molti, in questi giorni, il divano o il tavolo della cucina) dovremmo affrontare una piccola emergenza. Se fronteggiassimo il problema “non bagnare” nel suo complesso, ci dovremmo spostare velocemente, provando contemporaneamente a raccogliere tutte le cose che abbiamo davanti, cercando anche di arginare il flusso. Ma se invece di affrontare il problema nel suo insieme cercassimo di individuare i punti critici, scomponendolo, potremmo sostituire il problema “non bagnare” con dei problemi specifici come “raddrizzare la bottiglia”, “salvare i documenti importanti” mentre potremmo ritenere utile sacrificare il foglio di brutta copia che abbiamo davanti per impedire all’acqua di colare sul parquet. Pazienza per le gocce sui pantaloni. Quel “non bagnare”, declinato, preso per punti, si può affrontare diversamente.

Scomporre il problema ci aiuta a intervenire più efficacemente, almeno nel momento dello spiazzamento iniziale. Perché ogni scenario di crisi, preso nel suo complesso, è quasi impossibile da fronteggiare in maniera risolutiva. L’emergenza Coronavirus non fa eccezione. Destrutturando il quadro d’insieme, peró, abbiamo la possibilità di elaborare alcune risposte a problemi concreti.

 

 

2. Ridefiniamo le priorità

Definito un metodo (procedere per punti), c’è da capire con che spirito utilizzarlo. Qual’è il nostro approccio?

Una cosa è certa. Se vogliamo tutelare le persone a cui è dedicato il nostro servizio non possiamo rimanere invischiati nel tentativo maldestro di rifare le stesse cose di sempre. L’ostinazione in questo caso non pagherebbe. Non si tratta di abdicare, di abbandonare la nostra missione cancellando le attività fondamentali del nostro servizio, anzi.

Per abitare queste giornate non possiamo fare quello che abbiamo sempre fatto, come lo abbiamo sempre fatto. Ridaremo senso al nostro lavoro solo riscrivendo le nostre priorità. Tutto intorno a noi è cambiato e anche noi dobbiamo essere disposti al cambiamento. Sarà una lezione anche per il futuro.

Ai nostri nuovi obiettivi sarà opportuno dare un nome e assegnare un posto. Ne abbiamo fortemente bisogno. Dovremmo renderli espliciti condividendoli con i nostri colleghi e con gli utenti con cui lavoriamo. In queste giornate, mentre tutto è stato messo sottosopra, ridefinire le priorità a seconda di nuovi obiettivi ci aiuta a rimettere ordine e aiuta anche le persone a cui ci rivolgiamo che, diversamente, rischierebbero di essere travolte due volte.

“Riscrivere le priorità

del nostro lavoro”

3. Ciò che fa bene a voi fa bene agli altri

Scelto un metodo (procedere per punti) e definito un approccio (essere disposti al cambiamento), è il momento di  decidere cosa fare. Ancora una volta le nostre conoscenze professionali possono aiutarci solo in parte. Ma le competenze delle professioni sociali vanno ben oltre il sapere e il saper fare. Vediamo.

Per esempio, sarà capitato anche a voi in questi giorni di aver imparato moltissime cose nuove. Proviamo a metterne in fila alcune con cui tutti abbiamo fatto i conti.

I primi nuovi insegnamenti, ne siamo certi, hanno a che fare con la salute e tutte le indicazioni utili per la nostra sicurezza. Le distanze da mantenere, il modo corretto di lavarsi le mani, i comportamenti da evitare per la diffusione del virus, sono diventati molto più che buone abitudini.

Poi, avremo fatto certamente i conti con un altro aspetto legato alla salute. Questa volta, però (e non è una battuta sarcastica), quella mentale. Imparare a selezionare le notizie diffuse da media e social media è sempre una buona abitudine. Farlo ora è diventato fondamentale per affrontare con lucidità la situazione, o almeno per non farsi travolgere. Accedere a una buona informazione è una questione di sopravvivenza.

Sicuramente anche voi avrete sperimentato nuove piattaforme, applicazioni mai sentite e programmi dall’utilità finora sconosciuta. Tutti, nessuno escluso, abbiamo fatto una piccola indigestione tecnologica. Chi per lavoro, chi per ammazzare il tempo, chi per rimanere in relazione con gli altri, ognuno ha sperimentato nuovi modi comunicare. Così l’aperitivo tra amici è diventato una videocall mentre le riunioni del gruppo di lavoro si sono trasformate in webconference.

E per finire, anche se ci sarebbero da mettere in fila tantissime altre nuove abilità, abbiamo affrontato il problema più ostico: gestire e riorganizzare i nostri spazi e i nostri tempi per non perderci in giornate incerte, noiose o travolgenti.

Ma il punto non è se effettivamente siamo tutti un po’ più esperti di igiene personale. Non si tratta di misurare se abbiamo fatto o meno indigestione di notizie tossiche. Non vogliamo neppure verificare se dopo questa emergenza saremo davvero tutti un po’ più digitali e ci interessa relativamente poco sapere se siamo riusciti o meno a riorganizzare i nostri tempi e i nostri spazi. L’aspetto rilevante è che imparare queste nuove abilità ci ha fatti stare meglio. Più protetti seguendo le regole di igiene e sicurezza, meno stressati selezionando le informazioni da fonti attendibili, meno isolati aprendo nuovi canali di comunicazione tecnologica, meno spaesati riorganizzando i tempi e gli spazi della nostra giornata.

Cosa c’entra tutto questo con il lavoro sociale? Probabilmente nulla se per affrontare l’emergenza ci affidassimo solo alle nostre capacità tecniche. Ma questi non sono giorni normali e tutto sembra andato sottosopra, perfino le geometrie della relazione d’aiuto, i binari del rapporto di reciprocità, il mantra della giusta distanza. Per questo abbiamo bisogno di far leva sulla nostra esperienza e di attingere alle nostre risorse personali. Gli schemi di sempre non bastano. Ci servono pensieri semplici ma divergenti. Perché se è vero che permangono le differenze culturali, sociali, economiche, fisiche, mai come ora ci siamo ritrovati a vivere una condizione comune con i beneficiari dei nostri interventi. Invece di chiederci cosa dobbiamo fare come operatori per i nostri utenti, potremmo per esempio domandarci: di cosa ho bisogno io? Cosa mi è d’aiuto in questo momento? Perché ciò che fa bene a noi potrebbe far bene anche agli altri.

Per riorganizzare il lavoro con i nostri utenti potremmo quindi partire dal nostro bisogno di sentirci sicuri e analizzare i rischi che abbiamo davanti. Ci sarà utile, per esempio, individuare le situazioni più fragili per poterle monitorare con più attenzione. Ai corsi che siamo soliti proporre potrebbe essere utile sostituire momenti di informazione sui rischi, magari specifici per gli utenti che continuano a lavorare. Facendo tesoro del nostro bisogno di selezionare le informazioni, invece, potremmo organizzare un vero e proprio piano informativo da diffondere ai beneficiari, costante e aggiornato, sia rispetto a come comportarci, con info-grafiche e vademecum, sia rispetto alle notizie generali, per aiutare le persone a muoversi tra le news evitando stress inutile ed eccessivo. Potremmo, anzi, dovremmo prenderci cura delle relazioni assicurando nuovi canali per comunicare, internamente ma anche verso l’esterno. Potremmo infine riorganizzare gli spazi e i tempi dei nostri servizi, non solo per rispettare le norme di prevenzione, ma anche per renderli diversamente accoglienti, per esempio, per detonare le situazioni di conflitto, o consentire una maggior privacy o garantire piccoli spazi di libertá e autonomia.

In sostanza, se stiamo cercando degli spunti sulle iniziative da intraprendere, potremmo scriverne una lista infinita, una per ogni tipologia di intervento, ogni tipologia di struttura, ogni condizione individuale. Ma facciamo leva sulla nostra esperienza e sulle nostre risorse personali, senza dare nulla per scontato. Anche queste sono competenze professionali.

“facciamo leva sulla nostra

esperienza e sulle

nostre risorse personali”

Ricapitolando, quindi, possiamo dire che, per fronteggiare l’emergenza Coronavirus non è possibile indicare una soluzione buona per ogni situazione. Possiamo però condividere metodi e approcci.

Affrontiamo un problema alla volta, punto per punto, senza addentrarci in improbabili analisi d’insieme. Così eviteremo di perderci. Ridefiniamo obiettivi e priorità del nostro lavoro per adattarci al meglio alla nuova situazione e ai cambiamenti che ci ha imposto. Attingiamo dalla nostra esperienza e facciamo leva sulle nostre risorse personali. Non tutto ora ha una soluzione e non tutto segue gli schemi dettati dalle nostre conoscenze professionali. Seguendo questa strada potremmo leggere in maniera più lucida i bisogni del momento.

Come facciamo? Non c’è via di scampo, non ci sono scorciatoie. Da soli finiremmo solo per essere travolti dagli eventi e dal peso delle responsabilità. Per fare tutto questo dobbiamo ripartire dalla nostra equipe.

Ma di questo parleremo nel prossimo post.


Quel telefono che oggi ci salva la vita. Potremmo iniziare così il racconto di cosa sta accadendo in migliaia di strutture di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati sparse su tutto il territorio nazionale. E quel “ci” vorremmo poterlo sottolineare dieci, venti, trenta volte. Perché vi immaginate cosa potrebbe accadere in questi giorni di emergenza Coronavirus se migliaia di persone accolte fossero senza la possibilità di informarsi, di comunicare con gli operatori e di proseguire alcune delle attività essenziali per il loro processo di integrazione? Una cosa è certa, ora quel tanto vituperato smartphone nelle mani dei migranti accolti diventa una garanzia per loro e per tutti noi.

Dopo l’esperienza delle operatrici e degli operatori dei centri anti-violenzaSe #iorestoacasa, il nostro viaggio tra i lavoratori del sociale che non possono fermarsi di fronte all’emergenza Coronavirus, prosegue così raccontando le giornate di altri invisibili delle professioni sociali: migliaia di lavoratori impegnati nella presa in carico di richiedenti asilo e rifugiati.

Al centro della contesa politica degli ultimi anni, il sistema di accoglienza ha già dovuto fare i conti con l’avvicendarsi di norme sempre più restrittive, continui tagli di risorse e con un dibattito pubblico che ha travolto anche le certezze più consolidate. Cosi, le diverse professionalità coinvolte hanno inevitabilmente visto svalutare il loro lavoro, sempre meno riconosciuto e sempre più delegittimato.

Ma cosa succederebbe se questi operatori smettessero di lavorare in questi giorni?

Avremo modo di capire il funzionamento generale del sistema di accoglienza in altri approfondimento. Per il momento ci basta sapere che il lavoro degli operatori e di tantissime altre figure professionali, è suddiviso, in buona sostanza, tra la prima e la seconda accoglienza.

La prima accoglienza è svolta nei CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), nella maggior parte dei casi strutture di grandi dimensioni, che accolgono i richiedenti asilo fino a quando riceveranno una risposta dalla Commissione Territoriale. La seconda accoglienza è svolta nella rete SIPROIMI, quasi totalmente composta da appartamenti, dove sono accolti i migranti che hanno già ricevuto una forma di protezione, per un tempo massimo di sei mesi (salvo proroghe).
E’ in questo secondo circuito che gli operatori sono chiamati a svolgere interventi rivolti all’inclusione e gli sforzi comprendono il sostegno psicologico, la mediazione linguistica e culturale, l’insegnamento della lingua italiana, l’orientamento ai servizi del territorio, l’accompagnamento negli adempimenti legali, le attività di formazione e di inserimento lavorativo, oltre all’accompagnamento verso l’autonomia abitativa.

E’ facile immaginare quanto tutto questo regga su un pilastro fondamentale: la relazione di aiuto. Questa, ai tempi dello smartworking e del lavoro in differita, si può certo trasformare, ma non sempre può avvenire senza la presenza dei corpi, la frequenza di luoghi, il confronto diretto tra voci e sguardi.

Questo punto fondamentale spiega molti degli sforzi messi in campo in questi giorni.

Fin da subito, il ruolo principale di tutti gli operatori è stato quello di assicurare un’informazione efficacie alle persone in accoglienza. Le difficoltà non sono poche perché i livelli di scolarizzazione degli accolti non sono sempre omogenei e la padronanza della lingua non sempre è già tale da consentire la comprensione di informazioni complesse e a volte contraddittorie, che hanno messo in confusione anche tutti noi. Il lavoro di traduzione  è costante ma una delle difficoltà più grandi riguarda il contenuto del messaggio, non la sua forma. Se oggi l’imperativo è non uscire, fin dall’ingresso nei progetti di accoglienza i beneficiari sono infatti stati spinti a ricercare relazioni, a stare a contatto con le persone, a inserirsi nel tessuto locale, sociale e lavorativo.  Lo spaesamento è quindi doppio e non è semplice gestirlo via telematica.

La presenza degli operatori nelle strutture, almeno saltuaria, non è però necessaria solo informare sui rischi e sull’obbligo di rimanere in casa. E’ fondamentale soprattutto per intercettare ansie, paure o, peggio, malesseri più o meno latenti, in una composizione di donne e uomini già fortemente provata dall’esperienza della fuga, dello sradicamento, del distacco e spesso della violenza e della morte.

In alcuni casi, gli stessi responsabili degli Enti locali lavorano anche durante il periodo di ferie “obbligate” disposte a rotazione dal comune, per poter organizzare le attività e rispondere a problemi e difficoltà che non si fermano di fronte al virus, ma semmai si accentuano.

“La confusione iniziale è stata devastante”. In assenza di indicazioni chiare ci siamo mossi seguendo il buon senso ma gestire questa situazione richiede la nostra presenza” dice un’operatrice. “E richiede per prima cosa a noi stessi di gestire ansie, paure e incertezze, per non trasmetterle agli accolti.”

“Negli scorsi giorni un nostro beneficiario è stato sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio”, ci racconta la responsabile di un progetto SIPROIMI gestito da un Ente locale. “Nonostante il rischio Coronavirus siamo dovuti intervenire in fretta”, aggiunge raccontando una delle tante situazioni che possono chiamare in causa gli operatori. “Ridurre i rischi è la prima attenzione, ma non è sempre possibile azzerare i contatti”, conclude. “Abbiamo poi un problema di persone in strada. Le strutture di bassa soglia sono piene e le persone sono prive di informazioni e punti di riferimento”.

Per quanto riguarda i centri di prima accoglienza, le principali preoccupazioni riguarda proprio la gestione delle strutture. La loro conformazione e la presenza di molte persone rende le misure adottate in via generale di difficile applicazione e servono risposte immediate. Poi, ci sono le preoccupazioni principali riguardano gli aspetti giuridici. Non è chiaro il comportamento delle Commissioni Territoriali. Le istruzioni diramate dalle autorità sono state contraddittorie e confuse fino alla conclusione della scorsa settimana. Di fatto, è accaduto che molti beneficiari abbiano ricevuto la notifica di provvedimenti negativi anche nel corso dell’emergenza, con conseguenze disastrose sulla possibilità di impugnare i provvedimenti nei tempi di legge e accedere quindi a un diritto fondamentale.

Per quanto riguarda il SIPROIMI, invece, la dimensione e la modalità di gestione delle strutture permette di contenere i rischi adottando le misure valide per la genericità dei cittadini. Rimane però la necessità di riorganizzare i servizi offerti agli utenti. Certo, da questo punto di vista, la tecnologia è stata utile nel ritessere le fila tra i membri delle equipe, perno fondamentale di tutto l’impianto progettuale. Ma l’interruzione dei percorsi di inclusione e di riconquista dell’autonomia è un problema. Anche per questo motivo il personale non può permettersi uno stop ed è chiamato in questa fase a reinventare delle risposte concrete.

D’altro canto questo momento richiede uno sforzo creativo non indifferente, che va oltre la garanzia dei servizi offerti e la stabilità dei percorsi attivati.  Gli operatori sono chiamati a prendersi sulle spalle un problema enorme che riguarda la responsabilità individuale ma anche la tenuta collettiva. “Da questo punto di vista”, suggerisce un’operatrice legale impiegata da molti anni nei servizi di accoglienza, “il nodo centrale è la capacità dell’equipe di ripensare il suo ruolo e i suoi obiettivi”.

“La notizia della possibilità di lavorare da casa è stata un sollievo, ma ha lasciato subito il posto a una sensazione di totale impotenza”. Ripartire dalla riscrittura della quotidianità dell’equipe diventa quindi centrale.

Ecco che non mancano anche iniziative dei centri rivolte a tutta la comunità. Da molte parti sono gli stessi beneficiari ad assicurare la spesa di generi alimentari e l’approvvigionamento di farmaci ad anziani e persone in difficoltà. Il servizio solidale attivato con il progetto Amicizie Virali, come riporta il sito del SIPROIMI, è organizzato anche tramite un canale YouTube che diffonde attività curate dagli operatori e dai beneficiari dei centri rivolte anche a bambini e ragazzi del territorio, come l’ascolto guidato della musica, laboratori e letture di libri, oltre all’insegnamento delle lingue straniere, tra cui anche l’arabo.

Il tema del contenimento dei rischi è comunque quello su cui l’impegno è massimo. Uno dei problemi principali è che, tra gli accolti, c’è chi ha in corso un’attività lavorativa o un tirocinio in settori che non hanno sospeso le attività. Non tutti possono permettersi di interromperlo perché da quel contratto o da quel tirocinio potrebbero dipendere il suo percorso di uscita dal centro e l’inizio di un nuovo progetto di vita. Le indicazioni sulla sospensione delle uscite e la possibilità di proroghe arrivate dal Servizio Centrale hanno tranquillizzato gli operatori, ma chi ha un futuro fragile e pieno di incertezze fa fatica a pensare di potersi fermare. C’è da tenere presente anche un altro aspetto. Perché anche se tra chi vive negli alloggi si sono costruite relazioni più o meno solide, si tratta perlopiù di estranei che si sono ritrovati a condividere uno spazio e non di persone legate affettivamente. Questo rende tutto ancor più complicato perché c’è il rischio che si acuiscano conflitti, che aumenti la diffidenza e la mediazione degli operatori spesso è fondamentale.

“Noi stessi ci portiamo addosso il peso di poter essere veicolo di contagio” ci dice un operatore. “Anche i beneficiari che avevano raggiunto un livello di autonomia molto avanzato, finiscono per avere solo noi come punto di riferimento principale. Non possiamo sottrarci, ma non si tratta di essere eroi. Lo facciamo per loro, per noi e per il territorio in cui viviamo”.

Ciò che è chiaro è che in questo momento non bastano smartwork, ferie obbligate, cassa integrazione o congedi parentali a garantire la sicurezza di operatori, beneficiari e della comunità territoriale che li accoglie. Così come non bastano buona volontà e senso di solidarietà per svolgere un lavoro che, in queste ore in cui gli operatori sono chiamati a far leva su tutte le loro risorse, personali e professionali, rivela tutta la sua complessità.

Sarà bene ricordarsene quando tutto questo sarà finito.

 

 

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Associazioni, imprese sociali, servizi pubblici. L’emergenza Coronavirus coinvolge anche un esercito fatto da più di un milione di lavoratrici e lavoratori, volontarie e volontari, che combattono ogni giorno a fianco degli ultimi. Sono educatori e assistenti sociali, consulenti legali e psicologi, mediatori linguistici e culturali e operatori impiegati nei servizi più disparati. Tutti a tessere una trama fatta di passione e professionalità che non si è allentata neppure in questi giorni segnati dall’emergenza Covid-19 perché non può permettersi di farlo. Almeno non del tutto.

Le ultime settimane hanno già portato alla luce alcune differenze significative che ancora caratterizzano il mondo del lavoro. C’è chi continua a lavorare da casa attraverso lo smartworking, che sembra diventata la soluzione buona per tutto e chi invece ha dovuto chiudere totalmente la propria attività, chi è costretto a usufruire di ferie forzate e chi invece è si trova suo malgrado a rischiare il contagio nei luoghi della produzione.

Ma c’è anche un mondo che dovrebbe fermarsi e non lo fa: una miriade di lavoratrici e lavoratori del sociale costretti a vivere questi giorni nel guado.

Cosa succederebbe se si fermassero loro?

Se #iorestoacasa è il nostro viaggio per raccontare la sfida di chi non può permettersi di rimanere fermo. Di chi deve contenere il rischio contagio, per sé e per i propri familiari, ma al tempo stesso non può abbandonare il presidio, sospendere i servizi, interrompere i percorsi. Ed è anche grazie a loro se #andràtuttobene potrà effettivamente essere una realtà e non uno slogan del momento.

Per chi lavora nel sociale è così: senso di responsabilità misto a spirito di solidarietà, deontologia professionale ed etica, a servizio degli ultimi. Non è un caso che in pochi nella catena di comando si siano posti il problema di come far fronte alla gestione di case di cura, progetti di accoglienza, comunità educative, comunità terapeutiche, sportelli di supporto, strutture di bassa soglia e altri servizi essenziali.

In fondo è risaputo: chi lavora nel sociale c’è e basta, sempre e comunque, quando serve, che si tratti di personale dei servizi pubblici o operatori del Terzo settore.

Tra le tante operatrici e operatori che non possono permettersi di mettere in stand-by le attività, ci sono quelle/i impiegati nei centri anti-violenza e nelle attività a sostegno delle donne, come il Centro Veneto Progetti Donna.

Perché se #iorestoacasa rappresenta un orizzonte di salvezza per tutti, per molte donne, l’obbligo di stare a casa rischia di diventare un vero e proprio incubo in cui le mura domestiche si trasformano in una gabbia infernale.

“In questi giorni di emergenza il principale rischio è quello di un acuirsi delle violenze”. E’ la denuncia del Centro Donna. In situazioni di normalità, infatti, le violenza avvengono principalmente nei fine settimana, quando si rimane più spesso in casa e non ci sono le incombenze lavorative. In quei momenti la presenza in casa, di norma, diventa di molte ore consecutive e le donne sono esposte ad un maggior numero di situazioni a rischio. Inoltre, le donne, in una situazione come questa, così come avviene di norma nei weekend, sono sottoposte ad un controllo costante. Molte di loro hanno il peso della gestione della casa e la cura dei/delle figli/figlie. Il risultato è che non possono chiamare o contattare i centri perché possono essere viste e quindi “punite”.
Così l’emergenza rischia di diventare un inferno nell’inferno.

Il Centro Donna della Provincia di Padova offre ascolto, supporto psicologico, legale e servizi di accoglienza in strutture protette. Nel 2019 lo ha fatto per 1082 donne che si sono rivolte al centro per beneficiare delle attività di sostegno. La stragrande maggioranza lo ha fatto accompagnate dai figli. In 36 sono state accolte in strutture. Con loro 46 bambini/e. Ma il centro non si occupa solo di intervenire sulle situazioni di violenza e abuso. Oltre all’ascolto, al sostegno psicologico e a quello legale, le operatrici sono impegnate in attività di orientamento all’inserimento sociale e lavorativo, di empowerment e sviluppo di competenze, di sostengo alla genitorialità in raccordo con i servizi socio-sanitari, le Forze dell’Ordine, gli avvocati, i Tribunali e le altre istituzioni coinvolte.

I rischi per le operatrici sono alti perché nell’ultimo periodo si è registrato un forte numero di accessi. Le attività ordinarie, inoltre, richiedono interazione con diversi soggetti. Chiudere totalmente il servizio significherebbe, però, non solo consegnare molte donne all’abbandono e al pericolo, ma anche interrompere i percorsi di accompagnamento di tutte quelle che si sono reinventate e che non possono permettersi di tornare indietro.

In questi giorni le operatrici del centro sono state costrette ad fermare molte delle attività ordinare. Ma non per sospenderle. Per reinventarle. Lo sforzo comunicativo (#laviolenzanonsiferma), per dare un segno di speranza e possibilità, è imponente e si affianca ad una attività di sensibilizzazione incessante, per fare in modo che, nonostante l’emergenza, i servizi continuino a seguire le situazioni in carico. I contatti con le donne ospitate nelle strutture, invece, si sono dovuti diradare, ma non si sono totalmente interrotti. I

“Penso che quando sarà tutto tornato alla normalità sentiremo il contraccolpo di questa situazione e avremo un’impennata di richieste. In Cina è già successo” dicono dal Centro Donna. Le istituzioni e il Terzo settore intero devono prendere sempre più in considerazione questo fenomeno che, secondo i dati, coinvolge milioni di donne in Italia.

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L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) rilascia ogni anno un rapporto sulle malattie per cui sono prioritari investimenti in ricerca e sviluppo in quanto potenziali cause di emergenze sanitarie globali. A febbraio 2018, alla lista contenente la febbre emorragica Congo-Crimea, Ebola, Mers e Sars, la febbre Lassa, Nipah, la febbre della Rift Valley e Zika, è stata aggiunta una voce titolata malattia X, non ancora registrata, ma la cui probabilità di comparsa andava aumentando.

In un recente articolo del New York TimesPeter Daszak, tra i membri del comitato Oms che ha stilato quella lista, ha ricordato le caratteristiche che la malattia X avrebbe dovuto avere: si sarebbe dovuto trattare di un virus trasferito dagli animali all’uomo, in una zona del pianeta in cui le interazioni con la fauna selvatica sono frequenti; inizialmente sarebbe stata confusa con altre malattie, come un’influenza, salvo poi rivelarsi più pericolosa per la salute individuale o per la società; si sarebbe diffusa rapidamente, sfruttando lo spostamento delle persone e i commerci; avrebbe messo in crisi i mercati finanziari prima ancora di diventare una pandemia.

Il coronavirus Sars-CoV-2 risponde alla perfezione all’identikit delineato 2 anni fa dai virologi ed epidemiologi dell’Oms. Come tanti piccoli granelli di sabbia, il virus si è insinuato tra gli ingranaggi di un capitalismo just in time: ha inceppato un sistema produttivo tanto complesso quanto fragile, ha anestetizzato la domanda di consumi, ha mandato in tilt gli algoritmi della finanza che, non essendo programmati per tener conto di una pandemia, alla prima frenata hanno automaticamente iniziato a vendere, facendo crollare le borse (Milano il 9 marzo ha chiuso a -11%).


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Da un giorno all’altro abbiamo scoperto che il nostro mondo globalizzato, colossale impianto per dimensioni e connessioni, ha in un essere minuscolo il suo più acerrimo nemico. L’uomo del nuovo millennio si era illuso di aver definitivamente debellato le minacce epidemiche che hanno segnato la sua storia, recente e remota.

Il nuovo coronavirus è stato definito un cigno nero, una tempesta perfetta, inattesa e devastante. Eppure, la diffusione di un virus che attacca l’uomo e le sue attività non solo non è un evento inatteso, come testimonia il rapporto dell’Oms, ma addirittura è una conseguenza prevedibile dell’incontrollata espansione antropica. A ribadirlo e denunciarlo è un articolo pubblicato su Pnas (Proceedings of the National Academy of Sciences) da un gruppo internazionale di ricercatori capeggiato da Moreno Di Marco, ecologo del dipartimento di biologia e biotecnologia dell’università La Sapienza di Roma.

Circa il 70% delle malattie infettive emergenti (Emerging infectious diseases – Eid), e pressoché la totalità delle più recenti, ha origine dalla ravvicinata convivenza tra umani e animali selvatici o domestici. Dei 1400 patogeni umani già conosciuti (tra batteri, parassiti, funghi, virus e protozoi), 860 sono di natura zoonosica, ovvero di origine animale: circa il 60%.

La mappa mostra i luoghi in cui vi è il rischio stimato di emergenza di zoonosi. Allen et al 2017 Nat Comm fig. 3b

 

Come riporta un articolo su Nature Communications firmato dal gruppo di Daszak, la comparsa di zoonosi è tanto più probabile quanto maggiore è l’alterazione antropogenica dell’ambiente naturale come la deforestazione, l’espansione di terreni a uso agricolo, l’intensificazione dell’allevamento, della caccia e del commercio illegale di specie selvatiche.

La frammentazione degli habitat porta al declino dell’abbondanza e della diversità di specie animali che fungono da naturale serbatoio dei patogeni. Distruggendo questi serbatoi si ha lo spillover, ormai celebre titolo del libro di David Quammen del 2012, che letteralmente significa “riversamento” e che sta a indicare il salto di specie da un animale a un altro di cui il virus ha maggiore disponibilità: l’uomo.

Proprio l’autore di Spillover nel suo libro sosteneva che finita una pandemia, occorre immediatamente pensare alla successiva, per prevenirne gli effetti catastrofici. La malattia di Nipah, un encefalite con occasionali sintomi respiratori, ad esempio è comparsa nel 1998 in Malesia, dove gli allevamenti di suini si erano spinti al limitare delle foreste tropicali dove vive il pipistrello della frutta. Anche la Sars (Cina, 2003) e l’Ebola (Africa occidentale, a più ondate) hanno avuto origine da pipistrelli che venivano cacciati o che abitavano regioni sottoposte a intenso sviluppo antropico.

Tyler Hicks/Getty

Abbiamo già avuto prova di quanto l’impatto economico di epidemie in regioni geografiche limitate possa essere devastante. La Sars del 2003 causata anch’essa da un coronavirus, l’influenza suina del 2009 provocata da una variante del virus H1N1, l’Ebola che ha colpito l’Africa occidentale dal 2013 al 2016 sono costate ciascuna più di 10 miliardi di dollari. A fine febbraio le stime dell’impatto economico del nuovo coronavirus superavano già i 150 miliardi di dollari.

Di Marco e i coautori dell’articolo su Pnas denunciano che sebbene le tecnologie e gli strumenti di monitoraggio delle malattie con rischio pandemico si stiano sviluppando velocemente, le politiche globali di gestione del rischio sono ancora troppo incentrate sulla reazione (ricostruzione della catena epidemica, sviluppo di farmaci e vaccini per patogeni già noti) e troppo poco sulla prevenzione. Gli autori parlano di veri e propri punti ciechi (blind spots) della politica. Questi punti ciechi non solo vanno affrontati: conviene affrontarli. Non solo per salvaguardare la salute, ma per far sì che gli obiettivi di sviluppo sostenibile vengano realizzati.

Obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu

 

L’obiettivo 3 dell’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile mira alla promozione del benessere a tutte le età. La riduzione del rischio di malattie infettive globali è relegata al punto 3.3. Altri obiettivi dell’Agenda 2030 lavorano di concerto con il 3.3, come il numero 15, volto a conservare gli ecosistemi terrestri, o il numero 16, che favorisce istituzioni solide tramite cui poter governare le emergenze. Altri tuttavia possono risultare in contrasto, come il numero 2, che riguarda la sicurezza alimentare e che richiederà negli anni a venire un aumento della produttività agricola e dei sistemi di allevamento, specialmente nei Paesi in via di sviluppo, dove il rischio di comparsa di zoonosi è più alto.

Se il maltrattamento dell’ambiente è un fattore che favorisce l’insorgere di malattie infettive a rischio epidemico, conflitti, carestie e altre forme di instabilità sociale contribuiscono alla loro diffusione. Una dieta povera di afflusso proteico ad esempio è un problema nei Paesi economicamente svantaggiati, ma l’eccessivo sfruttamento degli allevamenti e la deforestazione lo sono altrettanto.

Il raggiungimento di un obiettivo può allora significare la rinuncia parziale a un altro, fanno notare gli autori. La ricerca  internazionale finora ha messo in relazione l’anidride carbonica in atmosfera con la conservazione degli habitat, la produzione di cibo con le emissioni, ma a loro dire non ha considerato a sufficienza il rischio di malattie infettive emergenti.

Le politiche ambientali devono invece promuovere con forza piani responsabili di sfruttamento dei terreni, ridurre la deforestazione e il contatto con specie animali potenzialmente rischiose. Gli ecosistemi mantengono un ruolo insostituibile nella regolazione delle malattie, garantendo ai patogeni una dinamica biologica che riduce la probabilità di trasmissione all’uomo.

In termini di prevenzione delle epidemie, qualche passo nella giusta direzione è stato fatto, notano Di Marco e colleghi. L’Oms, la Fao (Onu) e l’Organizzazione mondiale della sanità animale hanno condiviso un’unica strategia di salute collettiva, One Health Initiative, che si distingue per l’approccio interdisciplinare a questioni complesse che devono essere tenute in relazione tra loro.

Il modello di sviluppo che ha garantito la linfa vitale alle economie dei Paesi industrializzati non può andare avanti all’infinito. Cambiamento climatico e rischio di pandemie sono due squilli d’allarme che non possono più rimanere inascoltati, nonostante alcuni leader mondiali si ostinano a fare orecchie da mercante. La risposta a quelli che sono due dei più pressanti problemi di questo secolo passa necessariamente per una concreta azione di tutela dell’ambiente, della biodiversità e dei servizi ecosistemici.

 

di Francesco Suman
(ilbolive.unipd.it)


Il Decreto-legge 4/2019 introduce, all’articolo 4, comma 15, l’obbligo per i beneficiari del Reddito di Cittadinanza ad offrire, nell’ambito del Patto per il lavoro o del Patto per l’inclusione sociale, la propria disponibilità per la partecipazione ai Progetti Utili alla Collettività (PUC) a titolarità dei Comuni, da svolgersi presso il Comune di residenza.

Il volume contiene una raccolta di esperienze e buone prassi già realizzate o in corso di realizzazione su tutto il territorio nazionale, attraverso forme di volontariato, cittadinanza attiva, lavoro protetto ed altro, attuate nei Comuni, anche con l’apporto di Enti Pubblici e di Soggetti del Terzo Settore, assimilabili per uno o più aspetti ai principi cardine dei PUC.

La raccolta contiene anche una sezione dedicata a progetti a titolarità del Terzo settore o di altri soggetti.
Sebbene, infatti, per i PUC non sia prevista la possibilità di titolarità diversa da quella dei Comuni, la scelta è stata quella di includere anche spunti realizzabili in collaborazione con altri soggetti.

I progetti contenuti nella documento sono tratti da esperienze raccolte su base volontaria attraverso una rilevazione avviata da Anci e dalla Banca Mondiale.

La scelta dei progetti da condividere è stata lasciata ai titolari degli interventi nella consapevolezza che le esperienze di pochi possano diventare patrimonio di molti.


Orientamento e progettazione professionale in persone con storie di dipendenza

A cura di Ilaria Di Maggio, Università degli studi di Padova

I dati presentati dall’Ufficio antidroga delle Nazioni Unite (United Nations Office on Drugs and Crime – UNODC, 2016) mostrano come l’uso e l’abuso di droghe siano una realtà purtroppo presente a livello mondiale e che, in quanto tale, ogni nazione dovrebbe essere chiamata a prenderne coscienza e ad agire al fine di diminuire le ripercussioni che la dipendenza può avere nel benessere e qualità di vita di molti. In Europa, ad esempio, si stima che 17,1 milioni di giovani adulti abbiano fatto uso di droghe nel 2016 (European Observatory on Drugs, 2017), anche quando consideriamo le persone con storie di dipendenza effettivamente in trattamento, i dati del Dipartimento delle Politiche Antidroga Italiano (2016) confermano che l’uso patologico di sostanze stupefacenti è costantemente in aumento.

Con il termine “uso patologico di sostanze stupefacenti” si fa generalmente riferimento ad una modalità patologica dell’uso della sostanza che si caratterizza per (American Psychiatric Association; 2013):
•un’uso della sostanza spesso maggiore o per periodi prolungati rispetto a quanto previsto dalla persona;
•una grande quantità di tempo speso in attività necessarie a procurarsi la sostanza o a riprendersi dai suoi effetti;
•il fallimento nell’adempimento dei principali obblighi di ruolo sul lavoro, a scuola, a casa;
•un uso continuativo della sostanza nonostante la presenza di persistenti o ricorrenti problemi sociali o interpersonali causati o esacerbati dagli effetti della sostanza;
•l’abbandono o la riduzione a causa dell’uso della sostanza di importanti attività sociali, lavorative o ricreative;
•un uso ricorrente della sostanza in situazioni fisicamente pericolose;
•un uso continuato della sostanza nonostante la consapevolezza di un problema persistente o ricorrente, fisico o psicologico, che è stato probabilmente causato o esacerbato dalla sostanza stessa;
•tolleranza intesa come il bisogno di dosi notevolmente più elevate della sostanza per raggiungere l’effetto desiderato;
•episodi di astinenza.

Inoltre, si può parlare di uso patologico della sostanza secondo l’American Psychiatric Association (2013) quando lo stesso conduce a disagio o a compromissioni clinicamente significative.

Di fatto, l’uso “patologico” dalla sostanza comporta una serie di ripercussioni che generalmente possono mettere la persona ad alto rischio di sopravvivenza ed esporla maggiormente a condizioni di vita poco sodisfacenti e di qualità.

Le persone che fanno uso continuo di sostanze sono, di fatto, maggiormente esposte ad infarti, ipertensione, endocardite, ictus, immunodeficienze e malnutrizione. Esse sono anche maggiormente esposte a deficit neuro-cognitivi, in particolare nelle funzioni esecutive (Snyder, Miyake, & Hankin, 2015) che possono portare a sperimentare deficit in abilità utili in diversi domini di vita come ad esempio deficit nelle abilità di problem solving, di memoria, di apprendimento, di attenzione e di pianificazione (Motzkin, Baskin‐Sommers, Newman, Kiehl, & Koenigs, 2014).

Inoltre, sono diversi gli studi che mettono in evidenza alti livelli di comorbidità tra il disturbo da uso di sostanze e altre diagnosi psichiatriche (es. depressione, schizofrenia, disturbo bipolare; American Psychiatric Association, 2013).

L’uso e l’abuso continuo di sostanze potrebbe comportare anche ripercussioni nella sfera sociale dell’individuo. Di fatto, la dipendenza da uso di sostanze può causare una riduzione della rete sociale e dei supporti amicali e familiari su cui la persona può fare riferimento (American Psychiatric Association, 2013).

Infine, la dipendenza da uso di sostanze può provocare anche una serie di difficoltà a livello occupazionale e di progettazione di vita professionale e personale futura (e.g., Richardson, Wood, Montaner, & Kerr, 2012). A tal proposito, in letteratura è possibile trovare diversi studi che mostrano come le persone con una storia di uso di sostanze che riescono ad ottenere una buona integrazione nella sfera lavorativa sono anche più disposte a continuare il proprio percorso terapeutico-riabilitativo (Richardson et al., 2012; Shepard & Reif, 2004). Nello specifico, queste persone fanno riscontrare un maggior successo terapeutico e sono meno soggetti a ricadute (Richardson et al., 2012; Shepard, & Reif, 2004) e quindi sperimentano livelli più consistenti di soddisfazione di vita (Foster, Marshall, & Peters, 2000).

Di fatto, il piano d’azione antidroga europeo (European action plan, 2013) considera il reinserimento lavorativo come un elemento fondamentale delle strategie di intervento nelle problematiche del Disturbo da Uso di Sostanze, in quanto un uso patologico della sostanza può portare le persone con storie di dipendenza a sperimentare numerose barriere nel processo di pianificazione personale e professionale futuro, nonché nel riuscire a ricercare ed ottenere un lavoro dignitoso.

Richardson e colleghi (2012) indentificano tre complicazioni e sfide contestuali legate alla progettazione professionale tipiche delle persone con storie di dipendenza: quelle legate al trattamento, quelle legate al contesto sociale e quelle legate al mondo del lavoro.

Per quel che riguarda le barriere legate al trattamento, Richardson et al. (2012) mettono in evidenza come gli interventi riabilitativi in materia di dipendenza da abuso di sostanza siano molto rigidi in particolare quando all’interno degli stessi si fa uso di sostanze competitive (es. metadone). Nello specifico, le persone in cura per disturbo da uso di sostanza con sostanze competitive sono chiamate a recarsi spesso, anche giornalmente, nei servizi per la cura e la riabilitazione della dipendenza sia per poter effettuare diversi controlli legati all’uso della sostanza sia per poter usufruire della propria prescrizione di sostanze competitive. Inoltre, un’altra barriera legata al trattamento è proprio la mancanza e/o la riduzione dei finanziamenti ai programmi di riabilitazione professionale per persone con storie di dipendenza (Richardson et al, 2012; Shepard & Reif, 2004). Nonostante, in Italia ci sia un’attenzione istituzionale e legislativa in materia di integrazione lavorativa delle persone con storie di dipendenza (Art 124 del D.P.R. n. 309/90; Art 5 e 6 della legge del 5 Giugno 1990, n. 135; legge 381/91) negli ultimi anni a causa della crisi economica e delle politiche neoliberali si è osservata una riduzione del welfare (Mladenov, 2015) che ha messo in crisi le diverse politiche e azioni di reinserimento lavorativo.

Le barriere legate al contesto sociale fanno, invece, riferimento al pregiudizio verso le persone con storia di dipendenza. Le persone con storie di dipendenza, ad esempio, vengono considerate come inaffidabili, tendendti a perdere il controllo, riluttanti al cambiamento. Tale pregiudizio, purtroppo, è presente in diversi contesti di vita degli individui, da quelli familiari, a quelli sanitari e lavorativi (datori di lavoro, colleghi). Questi pregiudizi sembrano persistere anche quando la persona è in uno stato di “libertà dalla sostanza” (drug free), e sembrano influenzare fortemente la qualità della vita, la possibilità di trovare lavoro e la qualità del trattamento della stessa (Earnshaw, Bogart, Dovidio, & Williams, 2013).

Infine, ci sono le barriere associate al mercato del lavoro (Richardson et al, 2012; Shepard & Reif, 2004). A questo proposito, l’European Observatory on Drugs (2017) ha lanciato un vero e proprio allarme sui tassi di disoccupazione delle persone con una storia di uso di sostanza, mostrando come in Europa un consumatore su due è senza lavoro e vive in condizioni precarie e di estrema povertà. Questi dati sono confermati anche in Italia dove circa il 70% delle persone in trattamento per dipendenza da uso di sostanza sembra essere disoccupato o con lavoro occasionale e/o precario (Dipartimento Politiche Antidroga, 2015).

Insieme alle barriere legate al contesto, i professionisti dell’orientamento e della progettazione professionale devono considerare anche quelle che Richardson e colleghi (Richardson et al., 2012) definiscono barriere e sfide legate al cliente. Gli Autori mettono in evidenza come le persone con storie di dipendenza mostrano non solo bassi livelli di formazione, mancanza di esperienze lavorative, obiettivi professionali irrealistici, ma anche più bassi livelli di autostima, problem-solving, decision making e abilità sociali, quando confrontati con adulti senza storie di dipendenza.

Inoltre, Sgaramella, Ferrari e Ginevra (2015), focalizzando la loro attenzione sui processi di pianificazione futura personale e professionale, hanno mostrato come le persone con storia di dipendenza da sostanze hanno difficoltà a proiettarsi nel loro futuro considerando il loro passato e presente, a determinare i loro obiettivi futuri e a identificare strategie adattive per affrontare le diverse transizioni e richieste del mondo del lavoro. I risultati riportati da Sgaramella e colleghi (2015) sono in linea con quanto mostrato da Thomas e Rickwood (2016). Gli Autori, proponendo a 37 adulti con una storia di dipendenza da sostanze un’intervista semi-strutturata volta a indagare gli obiettivi e le speranze future nonché le risorse necessarie per il perseguimento degli stessi, hanno mostrato come i loro obiettivi fossero spesso inferiori rispetto alle loro possibilità future.

Tra gli obiettivi maggiormente citati ritroviamo il desiderio di un lavoro retribuito (con poca preoccupazione per il tipo di lavoro da svolgere), una casa sicura ma non di proprietà e, spesso, il desiderio di recuperare la custodia dei propri figli. Come riportato dagli autori, molti dei partecipanti coinvolti nello studio non sono stati in grado di articolare un futuro al di là delle circostanze attuali.

Le incertezze della loro vita hanno probabilmente plasmato il loro pensiero per il futuro, attraverso la mancanza di capitale finanziario e mediante una visione “deficitaria” di se stessi come se si considerassero in possesso di poche scelte e poche strategie per perseguire i loro obiettivi. Bryant e Ellard (2015), coinvolgendo 26 giovani con dipendenza da uso di sostanze e proponendo loro un’intervista semi-strutturata, hanno messo in evidenza come le storie delle persone con dipendenza da uso di sostanze sono caratterizzate da disgregazione familiare, abbandono, abuso, povertà, dipendenza e violenza, ma che allo stesso tempo sia possibile ritracciare nelle loro storie una sorta di speranza e motivazione finalizzata ad agire per creare un cambiamento positivo nel proprio futuro.

In conclusione, possiamo affermare che le barriere che le persone con storie di dipendenza sperimentano sono numerose e possono essere considerate frutto di una interazione reciproca e complessa tra individuo e contesto. Tale consapevolezza ha permesso di migliorare gli stessi interventi in materia di orientamento e progettazione professionale pensati per le persone con storie di dipendenza nel corso degli ultimi anni (Di Maggio, 2017).

Nello specifico, si è passati da modelli “speciali” che non consideravano la complessità delle variabili contestuali e personali in gioco nei processi di progettazione professionale delle persone con dipendenza, come ad esempio il “Work as Positive Outcome Model” all’interno del quale il lavoro e l’inclusione lavorativa e sociale venivano considerati come dei semplici outcome degli interventi più classici e clinici in materia di abuso di sostanza, a modelli che, anche se rimanevano intrappolati all’interno di “interventi speciali”, enfatizzavano maggiormente il bisogno di lavorare su abilità e punti di forza al fine di superare barriere personali e contestuali legate all’inserimento lavorativo proprie delle persone con storie di dipendenza, come ad esempio il “Work Infusion Model”.

Negli ultimi anni, si è iniziato a studiare e ad analizzare la possibilità di poter utilizzare interventi inclusivi di orientamento e progettazione professionale e personale futura basati sull’ approccio del Life design (Di Maggio, 2017; Hartung & Vess, 2016). Nello specifico, in questi interventi, i consulenti sono invitati, in primo luogo, a comprendere il contesto di vita, la rete di supporto sociale e le risorse rilevanti per il benessere generale del cliente. Successivamente, il consulente è chiamato ad aiutare i clienti a far emergere i loro punti di forza, gli aspetti positivi e le sfide affrontate con successo che sono affiorate dal racconto della loro storia di vita.

Nel caso di storie legate ad esperienze negative, i consulenti dovrebbero favorire una rielaborazione della loro esperienza, focalizzando l’attenzione sulle caratteristiche come la resilienza, la speranza, il coraggio e aiutando i clienti a riconoscere la difficoltà della situazione, evitando attribuzione negative, e aiutandoli ad identificare le barriere sistemiche e i pregiudizi sociali.

Tutto questo dovrebbe aiutare i clienti a ricostruire la propria storia in una lente positiva e ad iniziare a costruire la propria narrazione futura partendo dai propri punti di forza. Inoltre, tenendo conto della necessità e dell’importanza di promuovere l’inclusione lavorativa per le persone con vulnerabilità, è essenziale, secondo il paradigma del Life design, intervenire anche a livello contestuale, coinvolgendo i contesti sociali e lavorativi al fine di sviluppare atteggiamenti positivi verso la diversità e l’unicità delle persone promuovendo in tal modo migliori condizioni di lavoro e inclusione sociale. Di fatto, come mostrato recentemente da Santilli, Di Maggio, Ginevra e Nota (in press) esperienze positive di inclusione e una enfatizzazione degli aspetti positivi e del contributo possibile dei colleghi con vulnerabilità nel contesto lavorativo possono portare ad atteggiamenti più positivi e propensi alla collaborazione.

 

(da Sio-online.it)


Orientamento e counseling in ottica comunitaria: contrastare stereotipi e favorire l’inclusione

A cura di Ernesto Lodi, Gian Luigi Lepri, Patrizia Patrizi

In tempi di profonde mutazioni e metamorfosi economiche e sociali, secondo Bonomi (2010), una comunità non può che raccogliere fino in fondo la sfida nel contrastare il progressivo e sempre più marcato indebolimento dei legami sociali. Reti sociali impoverite non caratterizzano più solo le aree di marginalità sociale facilmente riconoscibili, ma appaiono oramai trasversali a ben più ampie e impreparate fasce sociali che sempre più si scoprono vulnerabili, con le prevedibili implicazioni per le biografie personali.

Inclusione e coesione sociale tornano così a essere individuate come priorità da promuovere, rafforzare e tutelare, in vista del pieno sviluppo delle singole traiettorie di vita. A tale fine le nostre comunità dovrebbero essere: relazionali, partecipate, inclusive, fondate sulla responsabilità come presupposto e risultato di un’intenzionalità sociale di benessere di tutte le parti.

In tale contesto, vi sono vecchie e nuove marginalità con cui l’orientamento e il counseling non possono fare a meno di venire sempre più in contatto, come per esempio in tutti quegli interventi rivolti a persone che hanno incontrato il sistema giustizia. Se solo pensiamo al nostro mandato costituzionale riguardo la finalità rieducativa della pena, qualsiasi percorso di rieducazione non può prescindere (e questa, in definitiva, è la prassi) da un tentativo di inserimento o reinserimento nei percorsi formativi e professionali.

Ma tutto ciò, allo stato attuale, avviene al di fuori di percorsi strutturati di orientamento e di supporto professionale allo sviluppo di carriera. Per queste ragioni, e incidendo sul vissuto comunitario, l’ambito della giustizia rappresenta un focus non più rinviabile anche per le nostre discipline e andrebbe riconsiderato il ruolo del counselor nella rivisitazione dei modelli di sostenibilità sociale, psicologica, relazionale (in questo, d’altro canto, sta il fulcro dell’Agenda 2030) in tale ambito.

Ma quale può essere il legame tra sistema giustizia e lavoro del counselor? La visione trasformativa della giustizia riparativa (UNODC, 2006) apre a nostro avviso nuovi scenari di intervento anche in termini di counseling e orientamento. La concezione trasformativa, infatti, sfida chi opera al suo interno non solo a occuparsi delle pratiche per riparare il danno (obiettivo centrale nel paradigma della giustizia riparativa), ma anche a rivolgersi alle varie forme di ingiustizia strutturale e individuale che le persone vivono. Si tratta, dunque, da un lato affrontare i fattori di rischio comunemente associati al crimine, dall’altro di intervenire attraverso i principi e i valori della giustizia riparativa per migliorare il modo in cui le persone si relazionano a sé stesse, agli altri e al loro contesto. Secondo questa ottica si punta sia alla trasformazione interiore delle persone sia alla trasformazione sociale delle comunità in termini di inclusività, solidarietà, convivenza pacifica. Si può ben comprendere come le recenti evoluzioni dell’orientamento, e ci riferiamo in maniera particolare al contributo della psicologia positiva, focalizzandosi sul potenziamento in chiave preventiva e promozionale delle abilità e delle risorse psicosociali delle persone in vista dell’innalzamento dei loro livelli di qualità, ben si adatti a tale visione di giustizia riparativa.

Quali sono le possibili intersezioni tra l’orientamento e il counseling e la visione trasformativa della restorative justice? Innanzitutto le variabili di lavoro che potrebbero essere assunte nei processi di intervento. Potenziare a livello individuale e di gruppo per esempio resilienza, speranza ottimismo, coraggio, autoefficacia, permette di adottare come focus il benessere delle persone e la capacità di svilupparsi come migliori cittadini e cittadine possibili all’interno e con le comunità di riferimento. Esiste poi un contributo specifico che ha fornito la psicologia positiva nel campo del cambiamento di visione in persone che hanno commesso reati. Come riportato da Wright e Lopez (2002), la psicologia positiva ha ribaltato il tradizionale approccio volto alla ricerca di deficit e patologie, muovendosi piuttosto verso l’individuazione dei possibili punti di forza. In chiave sociale, le risorse positive sono importanti perché favoriscono il superamento di credenze e sentimenti dispregiativi nei confronti di chi ha commesso reato, evitando i processi di etichettamento e di co-costruzione di una identità prevalentemente deviante. Ancora, accrescere l’autostima permette il raggiungimento di obiettivi individuali o socialmente desiderabili, per esempio a scuola o a lavoro, e l’evitamento di condotte devianti, come per esempio la dipendenza da sostanze, e di altri comportamenti dannosi per sé e gli altri (Hewitt, 2002). Altre variabili come la resilienza permettono di contrastare e superare tutti quei fattori di rischio che spesso sono stati collegati alla maggiore probabilità di commettere crimini (lutti, povertà, etc.) e la speranza e l’ottimismo per esempio permettono di vedere molteplici strade alla risoluzione delle proprie difficoltà o alle proprie forme di realizzazione personale. Sono tutti concetti attuali e centrali nel lavoro di professionisti/e del counseling.

Lavorare in ottica preventiva sulle variabili della psicologia positiva permette in definitiva di operare sul benessere delle persone, valorizzando le risorse e i comportamenti orientati sia al loro sviluppo sia alla relazione con gli altri, all’adattamento migliore possibile ai contesti, diminuendo la probabilità che le persone vivano condizioni di malessere e agiscano comportamenti auto ed etero-dannegganti. Se analizziamo il ruolo del coraggio, appare ancor più evidente come esso ben si adatti allo stesso tempo sia al supporto delle scelte di carriera, sia all’intervento nella giustizia, sia al lavoro in ottica comunitaria. Il coraggio, già contrapposto da Zimbardo alla “banalità del male”, rappresenta le “forze del bene” per contrastare visioni stereotipate della realtà, mettere a disposizione del mondo e dell’umanità il proprio miglior Sé, agire in modo pro-sociale per combattere l’accettazione acritica, l’apatia pubblica e l’indifferenza, favorire i comportamenti prosociali. La valenza del coraggio consiste in una forma di “devianza positiva” perché non conforme alle aspettative condivise (consuetudini, norme non scritte etc.) per un fine di maggiore valore. Come riportano Spreitzer e Sonenshein (2003), permette di combattere stereotipi e pregiudizi che spesso ostacolano il cambiamento e la trasformazione delle persone. Il coraggio, e di conseguenza i comportamenti coraggiosi “in relazione”, facilitano le persone nell’essere più pronte ad affrontare rischi, precarietà, incertezza e instabilità, sensazioni queste aggravate anche dai processi di etichettamento sociale e di esclusione. Il coraggio, richiama la nostra responsabilità a occuparci dell’umanità e ad essere degli “eroi del quotidiano”, promuovendo nuove visioni delle realtà e, di conseguenza, nuove modalità di pensare e agire nel sociale anche come professionisti dell’orientamento.

In definitiva, tutte le variabili della psicologia positiva promuovono benessere, dando modo a chi opera all’interno della visione trasformativa della giustizia riparativa di poter supportare processi di cambiamento all’interno delle comunità di riferimento e contrastare le varie forme di vulnerabilità strutturali e transitorie. Counselor e operatori/operatrici, che adottano come modalità di lavoro la visione trasformativa della restorative justice, possono agire in vista di quel cambiamento interiore e della comunità di riferimento citato in precedenza. Orientamento e visione trasformativa della giustizia riparativa possono essere in grado di generare modelli virtuosi di cambiamento in una prospettiva di sostenibilità per tutte le componenti della società, colmando quel gap di professionalità attualmente presente nei processi di inserimento e reinserimento formativo e lavorativo. Si potrebbero adottare a tal fine nei nostri modelli di intervento prospettive positive considerato che le restorative practices si sono mostrate decisive per attivare le risorse nelle persone e nei loro contesti di appartenenza (famiglia, amici, lavoro, scuola, servizi, comunità, etc.) (Patrizi et al, 2016) e che le variabili della psicologia positiva appaiono strumento irrinunciabile per accrescere il loro benessere di vita e di carriera come dimostrano le ormai numerose ricerche in merito. La psicologia positiva, inoltre, si focalizza sul fatto che le persone possono cambiare e adattarsi, puntando sulle loro risorse psico-socio-relazionali, pietre miliari e al contempo fondamenta dei processi trasformativi della giustizia riparativa. Il lavoro su tali risorse, in chiave sia di intervento individuale/gruppale sia di sensibilizzazione comunitaria, faciliterebbe inoltre la possibile decostruzione di stereotipi e pregiudizi che costituiscono spesso la principale barriera che esclude e limita i percorsi di carriera e il benessere inclusivo.

A breve sarà pubblicato un capitolo “Supportare la costruzione di progetti di vita e di carriera inclusivi, solidali, sostenibili” nel testo a cura di Soresi, Nota e Santilli (in press.), dove descriveremo nel dettaglio alcune delle azioni dell’Università di Sassari, in collaborazione con la propria rete, che nel tempo ha deciso di facilitare e supportare le traiettorie di vita e di carriera delle persone in specifiche condizioni di vulnerabilità. Si approfondiranno interventi e riflessioni sul counseling come strumento di accompagnamento allo sviluppo dei progetti professionali nel contesto carcerario e all’interno di cooperative sociali che si occupano di problematiche legate alla dipendenza di sostanze o di minori che sono venuti a contatto con il sistema giustizia. L’obiettivo comune è quello dell’inclusione attraverso il coinvolgimento della comunità e di tutte le parti interessate e la conseguente sensibilizzazione alla valenza dei percorsi di carriera nei percorsi di reinserimento, elementi imprescindibili per un effettivo e significativo impatto delle azioni di orientamento in condizioni di vulnerabilità. Spesso, infatti, causa del “fallimento” di tali percorsi è il mancato superamento di stereotipi e barriere culturali all’interno della comunità di riferimento che ostacolano il reinserimento formativo e professionale delle persone che hanno incontrato il sistema giustizia nel loro percorso di vita. Centrale nel capitolo citato è il riferimento al possibile contributo dell’orientamento e del counseling per attivare, in linea con gli obiettivi dell’agenda 2030, buone pratiche di sviluppo sociale ed educativo sostenibile. Finalità più ampia è la promozione del benessere di persone e comunità. L’obiettivo in tali contesti consiste nel creare spazi dove possano convergere gli interventi tra Restorative Justice e orientamento, generando nuovi concetti e nuovi strumenti in grado di promuovere benessere nelle persone e nelle loro comunità di riferimento e contrastare le sempre più estese forme di vulnerabilità.

 

(da SIO-online.it)


Pubblicato il report di Veneto Lavoro sulla condizione dei lavoratori disabili nel territorio

Al 31 dicembre 2018 le persone con disabilità occupate in Veneto risultano complessivamente 36.876, di cui 7.839 in provincia di Padova (21%), 7.051 in quella di Vicenza (19%), 6.651 a Verona (18%), 6.502 a Treviso (18%), 5.786 a Venezia (16%), 1.734 a Belluno (5%) e 1.313 a Rovigo (3%). Si tratta prevalentemente di uomini (59%) di età avanzata (63% con più di 50 anni) e con una percentuale di disabilità inferiore al 66%. Risultano per la quasi totalità assunti con contratto a tempo indeterminato (93%), con qualifica di impiegato (30%) e nel settore dei servizi (53%). Uno su tre è occupato con contratto a part time (32%). L’industria occupa il 46% delle persone con disabilità, il solo metalmeccanico ne occupa il 27%. Le donne rappresentano oltre la metà degli occupati disabili nei settori del commercio e tempo libero, nei servizi alla persona e in altri comparti del terziario, mentre hanno quote inferiori a un quarto degli occupati nelle industrie estrattive, nelle costruzioni, nel metalmeccanico. Il 76% è occupato nel settore privato, uno su quattro in quello pubblico.

È quanto emerge dal report dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro di Veneto Lavoro, i cui risultati, pur avendo un carattere di provvisorietà, consentono di delineare il quadro dell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità in Veneto.

La normativa vigente stabilisce che tutti i datori di lavoro con almeno 15 dipendenti sono obbligati ad assumere un numero di disabili (quota di riserva) in funzione della dimensione d’impresa: 1 disabile da 15 a 35 dipendenti, 2 disabili da 36 a 50 dipendenti, 7% dei lavoratori occupati da 51 dipendenti in su. Sono tuttavia previste condizioni di esonero o sospensioni, ad esempio per le imprese in crisi, e compensazioni territoriali per imprese multilocalizzate. La gestione dell’obbligo, inoltre, può avvenire mediante la stipula di apposite convenzioni con strutture pubbliche competenti o affidando commesse di lavoro alle cooperative sociali di tipo B (composte per almeno il 30% da lavoratori in condizioni di svantaggio).

Le aziende che occupano lavoratori disabili in Veneto risultano complessivamente 17.722. Di queste, solo 10.989 sono tenute all’obbligo di assunzione, per un totale di posti riservati alle persone con disabilità (“riserva”) pari a 42.727 posizioni lavorative, di cui 27.597 coperte. Circa un migliaio di posizioni lavorative coperte da lavoratori con disabilità riguardano invece quasi 7 mila aziende non tenute all’obbligo. I posti scoperti risultano così 14.189, per un tasso di scopertura, ovvero rapporto tra posizioni scoperte e posizioni riservate, pari al 33%. Delle quasi 11 mila imprese tenute all’obbligo, 6 mila (il 55%) hanno assolto l’obbligo di assunzione, mentre 2.800 (25% del totale), prevalentemente di piccole dimensioni e con una sola posizione riservata, hanno un tasso di scopertura del 100%. Al netto di esoneri, convenzioni e altri strumenti di compensazione le posizioni scoperte si riducono però a 7.710, per un tasso di scopertura netto che scende al 18%, con variazioni territoriali comprese tra il 22% di Venezia e il 12% di Belluno e Rovigo. A questo risultato contribuisce anche l’attività di convenzione tra Centri per l’Impiego e aziende, realizzata attraverso diversi strumenti e che rappresenta una caratteristica peculiare del sistema dei servizi per il lavoro del Veneto.

Tra gli strumenti attivati a livello regionale per agevolare l’integrazione lavorativa delle persone con disabilità si annoverano gli stage aziendali, che nel periodo di attuazione consentono all’azienda ospitante di poterli considerare nel computo delle posizioni coperte. Nel triennio 2016-2018 gli stage attivati ai fini dell’integrazione lavorativa sono stati complessivamente circa 1.700. Il 62% degli stagisti ha avuto un contratto di lavoro con l’azienda ospitante a seguito del tirocinio, il 15% dei quali a tempo indeterminato. Un altro rilevante intervento per favorire la partecipazione attiva e l’accesso al mercato del lavoro da parte delle persone con disabilità iscritte alle liste di collocamento mirato è stato finanziato nel 2017 dalla Regione del Veneto e prevedeva azioni di informazione e orientamento, formazione e accompagnamento al lavoro. La misura ha coinvolto oltre 7 mila persone, di cui il 45% era rappresentato da donne, e il 23% di queste risultava aver instaurato un rapporto di lavoro dipendente entro 12 mesi dalla conclusione del percorso.

disabili in condizione di disoccupazione e iscritti al collocamento mirato al 31 dicembre 2018 risultano 28.908, di cui circa 2.000 con uno stage in corso e 1.400 con un rapporto di lavoro aperto compatibile con il mantenimento dello stato di disoccupazione. Si tratta prevalentemente di maschi (57%), italiani (91%), con età superiore ai 30 anni (91%) e una distribuzione sostanzialmente omogenea sul territorio regionale. Si tratta, come per la generalità degli utenti iscritti ai Centri per l’Impiego, di un numero sovrastimato in quanto in molti casi non viene segnalato agli operatori un passaggio dalla disoccupazione all’inattività o alla professione autonoma (pensionamenti, condizioni di salute, limiti di età ecc.). Negli ultimi tre anni il flusso di iscrizioni è pari a circa 5.500 l’anno, di cui circa 4.000 iscritti per la prima volta. Entro 12 mesi il 61% degli iscritti ha avviato un rapporto di lavoro o un tirocinio, il 37% entro tre mesi.

Nonostante dai dati emerga come il monitoraggio della condizione lavorativa e della ricerca di occupazione da parte delle persone con disabilità sia ancora un cantiere aperto, è possibile trarre alcune considerazioni conclusive. In primo luogo, la presenza di oltre un migliaio di lavoratori con disabilità anche nelle aziende non tenute all’obbligo mostra un rilevante passo avanti culturale, anche per merito delle misure di orientamento, formazione, inserimento lavorativo e tirocinio sperimentate in questi anni. I Centri per l’Impiego pubblici possono svolgere un ruolo di supporto importante, sia per le imprese che per i lavoratori con disabilità, ancor più oggi che sono garantiti servizi e procedure uniformi e omogenee su tutto il territorio regionale. Il rispetto della normativa va inoltre perseguito con tutti gli strumenti economici e operativi disponibili, nonché con azioni di sensibilizzazione, testimonianze positive e interventi di formazione da tenersi nei CPI sul tema del disability management. Si rende infine necessario un tentativo di rispondere non solo ai bisogni presenti dei lavoratori disabili, ma anche al quesito sul futuro che si pongono le famiglie delle persone con disabilità, il “cosa accadrà dopo di noi”, che rappresenta una sfida sia in termini di inclusione lavorativa che di risposta sociale.

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